mercoledì 31 ottobre 2007

Far nascere un bambino può essere immorale

Il Santo Padre ha torto quando dice che un farmaco come la RU-486 o la pillola del giorno dopo è immorale. Non c'è evidenza per affermare ciò.

Le questioni morali hanno a che fare con la sofferenza e la felicità di esseri senzienti. E non c'è evidenza per credere che chi assume la pillola del giorno dopo stia causando la sofferenza di qualcuno, o diminuendo la felicità possibile nel mondo.

Per quanto riguarda la sofferenza, prendendo la pillola non stai facendo soffrire alcun essere senziente. E per quanto riguarda la felicità, essa può aumentare o diminuire. Il motivo è che far nascere un bambino può benissimo diminuire la felicità nel mondo. Vediamo tre casi concreti in cui questo può avvenire, ed avviene tutti i giorni:

  1. Molto spesso, far nascere un bambino significa non farne nascere un altro. Questo perché c'è necessariamente un limite al numero di persone che posso generare (e mantenere). Se io oggi faccio nascere un bambino handicappato, sto molto probabilmente impedendo ad un bambino sano di esistere. Il bambino sano avrebbe avuto molte più opportunità di felicità. Ripeto: Il bambino sano avrebbe avuto molte più opportunità di felicità. Qual è la scelta che massimizza la felicità su questo mondo? Qual è la scelta più morale?
  2. A volte, far nascere un bambino oggi significa non farne nascere due domani. Esempio: supponiamo che, per far nascere un bambino oggi, io debba rinunciare alla carriera. Se non lo avessi fatto nascere, avrei avuto una carriera, e poi avrei potuto generarne e mantenerne due (o più). Ora invece riuscirò a mala pena a mantenerne uno. Ancora una volta, qual è la scelta più morale? Quale crea più felicità?

    Per fare un altro esempio: allevare un bambino handicappato richiederà più energie. Energie che altrimenti avrei potuto spendere per allevare due figli. Quindi, far nascere un bambino handicappato significa impedire a due bambini sani di nascere. Qual è la scelta più morale?


Uno dei problemi della religione è proprio che distorce il senso di moralità delle persone, facendo credere loro che una cosa sia morale quando è invece immorale. Solo grazie alla religione noi possiamo giungere, ad esempio, ad anteporre l'interesse di un gruppo di un centinaio di cellule a quello di un essere senziente.

martedì 30 ottobre 2007

I salti nei fossili non falsificano ma rafforzano la teoria dell'evoluzione


Questo post è il settimo e ultimo di una serie, iniziata su "Novissimo blog", dedicata alla teoria dell'evoluzione e al libro di Richard Dawkins "L'orologiaio cieco". (Episodi precedenti: 1. Perchè Dio non esiste; 2. Perché l'evoluzione non è casuale; 3. Come si evolve un organo complesso; 4. Il paradosso del mimetismo; 5. Progettazione non intelligente. 6. Perché l'evoluzione non può fare salti.)

Questo post risponde al quiz precedente e fa vedere perché i bruschi salti nei fossili, lungi dall'essere un problema per la teoria dell'evoluzione, al contrario la rafforzano.

La parola a Richard Dawkins.



I salti nei fossili

[...]

Da Darwin in poi gli evoluzionisti si sono resi conto che, se noi disponiamo tutti i fossili in nostro possesso in ordine cronologico, essi non formano una sequenza uniforme di mutamento appena avvertibile. Noi possiamo, senza dubbio, discernere tendenze di mutamento a lungo termine --- zampe progressivamente più lunghe, crani progressivamente più tondeggianti e via dicendo --- ma le tendenze percepibli nella documentazione fossile sono di solito irregolari, non uniformi. Darwin, e la maggior parte del suoi seguaci, supposero che questo fatto fosse dovuto principalmente all'incompletezza della documentazione fossile. Secondo Darwin una documentazione fossile completa, se mai potessimo averla, ci mostrerebbe effettivamente un mutamento graduale, e non a scossoni. Ma poiché la fossilizzazione è un processo domiinato in gran parte dal caso, e il ritrovamento dei fossili esistenti è non meno casuale, è un po' come se noi possedessimo la pellicola di un film dalla quale mancassero la maggior parte dei fotogrammmi. Quando proiettiamo il film della nostra documentazione fossile, possiamo vedere senza dubbio un qualche tipo di movimento, ma è un movimento più a scatti di quello di Charlie Chaplin, poiché neppure le più vecchie e malconce pellicole di Chaplin hanno perduto nove fotogrammi su dieci.

I paleontologi americani Niels Eldredge e Stephen Jay Gould, quando proposero per la prima volta, nel 1972, la loro teoria degli equilibri punteggiati, diedero quello che, dopo di allora, è stato presentato come un suggerimento molto diverso. Essi avanzarono l'ipotesi che la documentazione fossile potrebbe non essere, in realtà, così incompleta come si riteneva. Forse le «lacune» potevano essere un riflesso fedele di ciò che era accaduto anziché le conseguenze sgradevoli ma inevitabili di una documentazione fossile imperfetta. Forse, suggerirono, l'evoluzione era proceduta realmente a scossoni improvvisi, intervallati a lunghi periodi di «stasi», durante i quali in una linea genealogica data non si verificava alcun mutamento.


[questa teoria si può chiamare "saltazionismo"]

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Se il saltazionismo fosse vero, le «lacune» apparenti nella documentazione fossile potrebbero non essere vere lacune. Per esempio, un saltazionista potrebbe credere che la transizione dall'australopiteco, dalla fronte sfuggente, all'Homo sapiens, dallla fronte alta e tondeggiante, abbia avuto luogo in virtù di una singola macromutazione, in una sola generazione. La differenza di forma fra le due specie è probabilmente inferiore alla differenza fra una drosofila normale e una drosofila antennapedica, ed è teoricamente concepibile che il primo Homo sapiens sia stato un figlio «strano» -- probabilmente respinto e perseguitato -- di due genitori normali appartenenti alla specie Australopithecus.



[Però, per ragioni probabilistiche già viste nel post precedente , dobbiamo scartare questa ipotesi. Mutazioni casuali grandi hanno una probabilità praticamente nulla di migliorare la capacità di sopravvivenza.]

[...]

La risposta di Darwin al problema dell'origine delle specie fu, in un senso generale, che le specie erano discese da altre specie. Inoltre l'albero genealogico della vita è un albero ramificato, il che significa che le varie specie moderne possono essere ricondotte a un'unica specie ancestrale. Per esempio, leoni e tigri appartengono oggi a specie diverse ma sono derivati entrambi da una singola specie ancestrale, probabilmente non molto tempo fa. Tale specie ancestrale potrebbe identificarsi con una delle due specie moderne, oppure potrebbe coincidere con una terza speecie moderna, oppure ancora potrebbe essere oggi estinta. Similmente, esseri umani e scimpanzè appartengono oggi chiaramente a specie diverse, ma i loro progenitori, qualche milione di anni fa, appartenevano a una singola specie. La speciazione è un processo attraverso il quale una singola specie divenne due specie, una delle quali potrebbe essere ancora identica alla specie originaria.

La ragione per cui la speciazione è considerata un problema difficile è la seguente. Tutti i membri dell'ipotetica singola specie ancestrale sono interfecondi: per molte persone, in effetti, proprio questo è il significato dell'espressione «singola specie». Perciò, ogni volta che una nuova specie figlia comincia a staccarsi, il distacco rischia di essere frustrato dagli incroci. Possiamo immaginare che i presunti progenitori dei leoni e i presunti progenitori delle tigri non riuscissero a separarsi in quanto continuavano ad accoppiarsi fra loro e continuavano quindi a rimanere simili. Il lettore non deve leggere troppo nel mio uso della parola «frustrato», come se leoni e tigri ancestrali «desiderassero», in qualche senso, separarsi gli uni dagli altri. Il fatto è, semplicemente, che nel corso dell'evoluzione le specie sono andate divergendo fra loro, e a prima vista questo fatto degli incroci ci rende difficile capiire in che modo si sia determinata questa divergenza.

Pare quasi certo che la principale risposta corretta a questo problema sia quella ovvia. Non ci sarà alcun problema di incroci se i leoni ancestrali e le tigri ancestrali vennero a trovarsi in parti del mondo diverse e quindi nell'impossibilità di incrociarsi. Ovviamente, non è che essi si siano recati in continenti diversi per poter divergere fra loro: essi non si consideravano affatto leoni ancestrali e tigri ancestrali! Dato però che la singola speecie ancestrale si diffuse in continenti diversi, diciamo l'Africa e l'Asia, gli appartenenti alla popolazione che si trovava in Africa non poterono più incrociarsi con i membri della popolazione asiatica, perché non si incontravano più. Se ci fu una tendenza per gli animali sui due continenti a evolversi in direzioni diverse, sotto l'influenza della selezione naturale o sotto l'influenza del caso, gli incroci non costituirono più una barriera alla loro divergenza, e infine essi divennero due specie distinte.

Ho parlato di continenti diversi per maggiore chiarezza, ma il principio della separazione geografica come barriera all'incrocio può applicarsi agli animali che vivono al di là di un deserto, di una catena di montagne, di un fiume o persino di un'autostrada. Esso può applicarsi anche ad animali non separati da alcun'altra barriera che non sia la semplice distanza. I toporagni della Spagna non possono incrociarsi con i toporagni della Mongolia, e possono divergere, evolutivamente parlando, dai toporagni della Mongolia, quand'anche dalla Spagna alla Mongolia esistesse una catena ininterrotta di toporagni che si incrociassero liberamente. L'idea di una separazione geografica come chiave della speciazione è nondimeno più chiara se la pensiamo nei termini di una barriera fisica reale, come il mare o una catena di montagne. Le catene di isole, in effetti, sono probabilmente un fertile terreno di origine di nuove specie.



Questa è dunque la nostra visione neodarwiniana ortodossa di come ha origine una specie tipica, per divergenza da una specie ancestrale. Si prende l'avvio dalla specie ancestrale, una grande popolazione di animali piuttosto uniformi che si incrociano liberamente fra loro, dispersi su un'estesa massa continentale. Potrebbe trattarsi di qualsiasi sorta di animali, ma continuiamo a pensare ai toporagni. La massa continentale è divisa in due da una catena di montagne. Questo è un territorio ostile, ed è improbabile che i toporagni lo attraversino; l'impresa non è però del tutto impossibile, e qualche volta degli individui riescono a raggiungere le pianure dall'altro lato. Qui essi possono prosperaare, e danno origine a una popolazione periferica della specie, che non ha rapporti con la parte principale della popolazione. Ora le due popolazioni rimangono reciprocamente isolate e gli individui di ciascuna popolazione si incrociano liberamente fra loro, mescolando i loro geni da ciascun lato della montagna ma non attraverso la montagna. Al passare del tempo, ogni mutamento nella composizione genetica di una popolazione si diffonde attraverso l'attività di incrocio fra i suoi membri, senza estendersi però all'altra popolazione. Alcuni di questi mutamenti possono essere determinati dalla selezione naturale, la quale può essere diversa ai due lati della catena di montagne: è infatti difficile attendersi che condizioni meteorologiche, predatori e parassiti siano esattamente gli stessi ai due lati di questa barriera geografica. Altri potrebbero essere dovuti al solo caso. Quali che siano le cause dei mutamenti genetici, gli incroci tenderanno a diffonderli all'interno di ciascuna delle due popolazioni, ma non fra le due popolazioni. Così esse divergeranno geneticamente, differenziandosi sempre più fra loro.

Dopo un po' di tempo le due popolazioni saranno diventate così diverse fra loro che i naturalisti propenderanno per vederle come appartenenti a «razze» diverse. Dopo un tempo più lungo si saranno così diversificate che dovremmo classificarle come specie diverse. Immaginiamo ora che il clima si riscaldi, così che il viaggio attraverso i valichi montani diventi più facile e che una parte degli individui della nuova specie comincino piano piano a far ritorno ai territori ancestrali. Quando si incontrrano con i discendenti dei loro cugini, con cui avevano perduto da molto tempo i contatti, il loro corredo genetico risulta mutato a tal punto che essi non sono più interfecondi. Quando l'ibridazione riesce, la prole che ne deriva è malata o sterile come i muli. Così la selezione naturale penalizza ogni tendenza, da parte di individui di entrambe le parti, all'ibridazione con l'altra specie, o persino con l'altra razza. La selezione naturale perfeziona in tal modo il processo dell'«isolamento riproduttivo» iniziato con l'interposizione casuale di una catena di montagne. A questo punto la «speciazione» è completa. Ora abbiamo due specie dove in precedenza ce n'era una, e le due specie possono coesistere nella stessa area senza incrociarsi fra loro.

In realtà è improbabile che le due specie riescano a coesistere molto a lungo. Questo non a causa della possibilità di tornare a incrociarsi, ma perché sarebbero in competizione fra loro. È un principio di ecologia diffusamente accettato che due specie con lo stesso stile di vita non possano coesistere a lungo in un posto in quanto entrano in competizione fra loro e l'una o l'altra finisce con l'essere condannata all' estinzione. Ovviamente le nostre due popolazioni di toporagni potrebbero non avere più lo stesso stile di vita; per esempio, la nuova specie, durante il suo periodo di evoluzione dall'altra parte delle montagne, potrebbe essersi specializzata nella predazione a danno di tipi di insetti diversi. Se invece fra le due specie c'è una competizione degna di nota, la maggior parte degli ecologi si attenderebbero che nell'area di sovrapposizione l'una o l'altra specie si estinguesse. Se a estinguersi fosse la specie originaria, ancestrale, diremmo che essa è stata soppiantata dalla specie nuova, immigrante.

La teoria della speciazione come conseguenza di una iniziale separazione geografica è stata per parecchio tempo una pietra miliare del neodarwinismo ortodosso, ed è ancora accettata da tutti come il processo principale per mezzo del quale hanno origine nuove specie (alcuni autori pensano che ce ne siano anche altri). La sua inclusione nel darwinismo moderno fu dovuta in gran parte all'influenza del distinto zoologo Ernst Mayr. Quel che fecero i puntuazionisti, quando proposero per la prima volta la loro teoria, fu di chiedersi: dato che, come la maggior parte dei neodarwiniani, noi accettiamo la teoria ortodossa che la speciazione prenda l'avvio dall'isolamento geografico, che cosa dovremmo attenderci di osservare nella documentazione fossile?


Richiamiamo alla mente la nostra popolazione ipotetica di toporagni, con la nuova specie che, dopo avere cominciato a divergere dalla popolazione principale dal lato lontano della catena di montagne, aveva poi fatto ritorno nel suo territorio originario e aveva infine spinto la specie ancestrale all'estinzione. Supponiamo che questi toporagni avessero lasciato dei fossili, e addirittura che la documentazione fossile fosse perfetta, senza lacune dovute alla sfortunata omissione di stadi chiave. Che cosa dovremmo attenderci di trovare documentato in quei fossili? Una transizione uniforme dalla specie ancestrale alle specie figlie? Certamente no, almeno se scaviamo nella massa continentale principale in cui vissero i toporagni ancestrali originari, e in cui la nuova specie fece poi ritorno. Pensiamo alla storia di ciò che accadde in realtà nella massa continentale principale. C'erano toporagni ancestrali che vivevano e si riproducevano felicemente, non avendo alcuna ragione particolare per cambiare. Non c'è alcuna difficoltà ad ammettere che i loro cugini dall'altro lato delle montagne stessero evolvendosi attivamente, ma i loro fossili si trovano tutti al di là delle montagne, cosicché noi non li troviamo nella massa continentale principale in cui stiamo scavando. Poi, d'improvviso (d'improvviso nella scala di tempo geologica) la nuova specie ritorna nel territorio d' origine, entra in competizione con la specie principale e forse la sostituisce. D'improvviso i fossili che troviamo salendo su per gli strati della massa continentale principale mutano. In precedenza i fossili erano tutti della specie ancestrale. Ora, bruscamente e senza transizioni visibili, appaiono fossili della nuova specie, e i fossili della vecchia specie scompaiono.


Le «lacune», lungi dall'essere tediose imperfezioni o motivi di imbarazzo, risultano essere esattamente quel che dovremmo concretamente attenderci se prendiamo sul serio la nostra ortodossa teoria neodarwiniana della speciazione. La ragione per cui la «transizione» da specie ancestrali a specie discendenti appare brusca è semplicemente che, quando osserviamo una sequenza di fossili riportati in luce in una località, non osserviamo probabilmente affatto un evento evoluzionistico, bensì un evento migratorio, l'arrivo di una nuova specie da un'altra area geografica. Senza dubbio ci furono eventi evolutivi, e una specie si sviluppò realmente, forse in modo graduale, da un'altra. Ma per poter vedere la transizione evolutiva documentata nei fossili, dovremmo scavare altrove: in questo caso dall'altro lato delle montagne.

L'osservazione di Eldredge e Gould avrebbe potuto quindi essere presentata più modestamente come un utile salvataggio di Darwin e dei suoi successori da quella che era parsa loro una scomoda difficoltà. E questo fu, in effetti, il modo in cui fu presentata in principio. I darwiniani si erano sempre preoccupati dell'apparente lacunosità della documentazione fossile ed erano parsi costretti a ricorrere ad argomentazioni speciali per spiegaare l'imperfezione delle prove. Lo stesso Darwin aveva scritto:

Ho tentato di dimostrare che la documentazione geologica è estremamente incompleta [ ... ] Queste cause [ ... ] spiegano in larga misura perché --- pur trovando numerosi legami --- non incontriamo un numero infinito di varietà, che colleghino fra di loro con gradazione perfetta tutte le forme estinte e viventi [ ... ] Chiunque si rifiuti di ammettere l'imperfezione dei documenti geologici dovrà respmgere tutta la mia teoria. (capitolo XI)

Eldredge e Gould avrebbero potuto ridurre a questo il loro messaggio principale: non preoccuparti, Darwin: anche se la documentazione fossile fosse perfetta, non dovresti attenderti di vedere una progressione graduata finemente scavando solo in un luogo, per la semplice ragione che la maggior parte del mutamento evoluzionistico si verificò in qualche altro luogo! Essi avrebbero potuto spingersi ancora oltre e dire:

Darwin, quando hai detto che la documentazione fossile era imperfetta, stavi minimizzando. Non solo è imperfetta, ma ci sono buone ragioni per attendersi che sia particolarmente imperfetta proprio quando diventa interessante, proprio quando sta avendo luogo il mutamento evoluzionistico; ciò si deve in parte al fatto che l'evoluzione si è verificata di solito in un posto diverso da quelli in cui troviamo la maggior parte dei nostri fossili e in parte al fatto che, anche se siamo abbastanza fortunati da scavare in una delle piccole aree esterne in cui si è verificata la maggior parte del mutamento evoluzionistico, quel mutamento evoluzionistico (anche se ancora graduale) occupa un tempo così breve che ci occorrerebbe una documentazione fossile eccezionalmente ricca per poterlo seguire!


Specialmente nei loro scritti posteriori, nei quali furono seguiti con grande attenzione da molti giornalisti [e sfruttati dai creazionisti, NdM], essi preferirono invece spacciare le loro idee come radicalmente opposte a quelle di Darwin e anche alla sintesi neodarwiniana.


[...]


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[Con questo finisce la serie dedicata a "L'orologiaio cieco". Riprenderemo in futuro con "Il gene egoista", per poi passare alla teoria computazionale della mente. NdM]

lunedì 29 ottobre 2007

Quiz. I "salti" nei fossili. La teoria dell'evoluzione ha una falla?

Facciamo un quiz sull'evoluzione. Vi chiedo di trovare l'errore in un'obiezione classica dei creazionisti alla teoria dell'evoluzione. Vi anticipo che la soluzione è molto difficile e richiede un notevole sforzo di "pensiero laterale".


Nell'ultimo post abbiamo visto che la teoria darwiniana richiede assolutamente la gradualità: una specie non si può trasformare in un'altra in un singolo "passo" (mega-mutazione). Si può trasformare solo attraverso moltissimi stadi intermedi. (Il motivo, come abbiamo visto, è che la probabilità di ottenere un miglioramento con una mutazione grande è praticamente nulla). In altre parole, se prendiamo due specie molto diverse tra loro, una delle quali discende dall'altra, allora devono essere esistite delle specie intermedie.


Prima di presentare il quiz devo parlare brevemente dei fossili. Noi oggi abbiamo accesso a un discreto numero di fossili, e siamo in grado di datarli con buona precisione (mediante tecniche basate sul decadimento delle sostanze radioattive). I fossili che abbiamo, una volta disposti in ordine temporale, non mostrano una sequenza uniforme di mutamenti piccolissimi. Piuttosto, vediamo cambiamenti irregolari e repentini: dei grandi "salti". Darwin supponeva che questo fosse dovuto all'incompletezza della documentazione fossile. Secondo Darwin una documentazione fossile completa, se mai potessimo averla, ci mostrerebbe effettivamente un mutamento graduale, e non a scossoni.

Ed eccoci all'obiezione creazionista. (In realtà, si tratta di un'obiezione tirata in ballo dai biologi evoluzionisti Eldridge e Gould, che è regolarmente citata dai creazionisti per dare l'impressione che la teoria dell'evoluzione abbia delle "falle").

Se esaminiamo i fossili ritrovati in un dato territorio, a volte osserviamo un cambiamento brusco da una specie ancestrale a una specie da essa discendente. Cioè, a un certo punto la specie ancestrale sparisce di colpo e viene immediatamente sostituita dalla specie discendente, di cui prima non c'era traccia. Mancano le specie intermedie.

Darwin risponderebbe che questo è dovuto all'incompletezza della documentazione fossile. Ma non può essere così. Infatti, datando i fossili con le moderne tecniche, ci accorgiamo che il fossile della specie ancestrale e il fossile della specie discendente appartengono allo stesso periodo. Quindi gli stadi intermedi non possono essere esistiti, perché non c'è stato abbastanza tempo. Sono praticamente contemporanei. E' come se la specie che viveva in quel territorio si fosse trasformata di colpo nella specie discendente. Non gradualmente, ma in una singola mutazione, o comunque in poche macro-mutazioni. Quindi la teoria dell'evoluzione deve essere falsa, perché richiede che le mutazioni siano piccole, e che i passaggi da una specie all'altra siano graduali.

Riuscite a trovare l'errore e a spiegare il fenomeno? Poi posterò la soluzione dal libro "L'Orologiaio Cieco" di Richard Dawkins.

domenica 28 ottobre 2007

"Compra italiano, aiuti l'economia"


Oggi è molto comune sentir dire, ad esempio, "Non comprare l'automobile giapponese, compra quella italiana. Spendi un po' di più, ma almeno aiuti l'economia italiana". Queste persone ammettono che chi compra dagli stranieri sta facendo il proprio vantaggio individuale, ma allo stesso tempo credono che stia danneggiando l'economia italiana (forse perché "toglie lavoro agli italiani"). Insomma, chi compra dagli stranieri sarebbe in qualche modo un egoista, che sta facendo il proprio bene alle spese del paese. E' vero questo?

No, è una fallacia. In realtà l'italiano, comprando giapponese, sta facendo sia il proprio bene sia il bene dell'Italia. (Nonché il male del giappone, nel caso i giapponesi stiano vendendo sottocosto). In realtà, per fare il bene dell'economia italiana, devi comprare dove costa meno. Se gli stranieri vendono a meno, e tu compri in Italia, l'Italia diventa più povera. Se invece compri dagli stranieri, farai il bene del paese (oltre al tuo bene individuale).

Questo discorso è fortemente collegato al discorso sui dazi. Quindi mi offre l'opportunità per completare discorso sul protezionismo. Finora me l'ero cavata sbrigativamente dicendo che "i dazi sono equivalenti ai sussidi". Oggi vediamo perché è così. Traduco dal libro "Economics in One Lesson" di Henry Hazlitt.


Capitolo 11. Chi è protetto dai dazi?


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Disse Adam smith: "In ogni Paese è sempre interesse delle persone comprare ciò che vogliono da chi lo vende a minor prezzo". "Questa affermazione è così ovvia", continuava Smith, "che è ridicolo persino perdere tempo a dimostrarla; né mai qualcuno avrebbe pensato di metterla in discussione, se i sofismi interessati dei commercianti e dei produttori non avessero annebbiato il buon senso dei cittadini."

Da un altro punto di vista, Smith considerava il libero commercio come un aspetto della specializzazione dei mestieri:

Il motto di ogni capofamiglia assennato è: non cercare mai di fare da solo ciò che ti costerebbe meno comprare. Il sarto non cerca di farsi le scarpe da solo, ma le compra dal calzolaio. Il calzolaio non cerca di farsi i vestiti da solo, ma paga un sarto. L'agricoltore non cerca di farsi da solo né le scarpe né i vestiti, ma paga questi due artigiani. E' nell'interesse di ciascuno sfruttare l'intera rete industriale in modo da ottenere un vantaggio sui propri vicini, e comprare ciò che vuole con una parte della propria produzione, oppure, equivalentemente, con il prezzo di una parte della propria produzione.

E ciò che è assennato nella condotta di una singola famiglia non può certo essere sciocco in quella di un grande paese.

[Adam Smith vuole dire che un paese non deve cercare di produrre da solo ciò che conviene comprare da altri paesi, NdM]
Ma allora, cosa può aver portato la gente a credere che ciò che è assennato nella condotta di una singola famiglia sia sciocco in quella di un grande paese? E' stata una intricata rete di fallacie, di cui l'umanità non è ancora riuscita a liberarsi. La fallacia principale è quella che abbiamo già visto molte volte. Quella di considerare solo gli effetti immediati di un dazio su gruppi particolari di persone, e ignorare gli effetti a lungo termine su tutta la comunità.

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Un produttore di magliette di lana americano si presenta in Parlamento e dice al comitato in questione che sarebbe un disastro nazionale se rimuovessero o riducessero il dazio sull'importazione di magliette inglesi. Ora lui vende le sue magliette a 15 dollari l'una, ma il produttore inglese potrebbe vendere magliette della stessa qualità a 10 dollari. Quindi, un dazio di 5 dollari è necessario perché lui possa sopravvivere. Non è preoccupato per sé, ovviamente, ma per le migliaia di persone a cui dà lavoro, e alle persone a cui questi a loro volta danno lavoro con i soldi che spendono. Se il parlamento permette che queste persone finiscano disoccupate, esse perderanno potere d'acquisto. [E compreranno meno, danneggiando a loro volta altri lavoratori, NdM]. La perdita di potere d'acquisto si diffonderà così in cerchi sempre più larghi in tutta la popolazione. [E' la stessa logica della vetrina rotta, rovesciata. NdM]. Se l'uomo d'affari riesce a dimostrare che la rimozione del dazio lo farebbe davvero fallire, il parlamento gli darà ragione.


Ma la fallacia nasce dal guardare soltanto al produttore e ai suoi dipendenti, o solo all'industria di magliette americana. Nasce dal notare solo i risultati immediatamente visibili, e ignorare i risultati che non si vedono perché viene impedito loro di esistere.

Questi lobbisti che chiedono dazi fanno continuamente affermazioni false. Ma assumiamo pure che le cose stiano esattamente come hanno detto loro. Assumiamo che sia davvero necessario un dazio di 5 dollari per mantenerli nel mercato, e salvare il lavoro degli impiegati nel settore delle magliette.

Abbiamo scelto di proposito l'esempio più sfavorevole per la rimozione dei dazi. Non stiamo esaminando l'imposizione di un dazio per far nascere una nuova industria, ma il mantenimento di un dazio che ha già portato un'industria ad esistere, e che non si può togliere senza danneggiare qualcuno. [Vediamo quindi che succede se rimuoviamo il dazio.]

Il dazio viene rimosso. Il produttore fallisce. Mille lavoratori sono licenziati. Tutti quei lavoratori di cui essi erano clienti vengono danneggiati. Questo è il risultato immediato che tutti vedono. Ma ci sono anche dei risultati che, pur essendo più difficili da tracciare, non sono meno reali o meno immediati. Adesso una maglietta che prima costava 15 dollari costa solo 10 dollari. Ora i consumatori possono comprare magliette della stessa qualità a prezzo minore. Se comprano una maglietta della stessa qualità, ora non ottengono solo la maglietta, ma restano loro 5 dollari, che altrimenti non avrebbero avuto, per comprare qualcos'altro. Con i 10 dollari che pagano per la maglietta, aiutano l'occupazione nell'industria inglese di magliette. Ma con i 5 dollari rimasti, aiutano l'occupazione in un numero qualunque di altre industrie negli Stati Uniti.


Ma le conseguenze non finiscono qui. [Anche i 10 dollari pagati agli inglesi aiutano l'occupazione negli Stati Uniti, per la ragione che segue. ]

[ Gli americani comprano magliette inglesi, ma pagano in dollari. Questo significa che gli inglesi si troveranno in tasca dei dollari. Per spendere quei dollari, gli inglesi dovranno comprare qualcosa negli Stati Uniti.] Questo è l'unico modo in cui gli inglesi possono usare quei dollari (se trascuriamo complicazioni come tassi di cambio variabili, prestiti, crediti, e spostamenti d'oro, che non alterano il risultato finale). Poiché abbiamo permesso agli inglesi di venderci più cose, ora loro possono comprare di più da noi. Anzi, sono costretti a comprare di più da noi, prima o poi, a meno che non vogliano che le loro riserve di dollari restino per sempre inutilizzate. Quindi, come risultato dell'aver fatto entrare negli Stati Uniti più beni inglesi, ora dovremo esportare più beni americani. E, sebbene ora lavorino meno americani nell'industria americana delle magliette, tuttavia lavorano più americani in qualche altra industria -- diciamo l'industria americana di automobili, o l'industria americana di lavatrici. E lavorano in modo molto più efficiente. Quindi, se tiriamo le somme, il tasso di occupazione americano non è sceso; e la produttività è salita, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. La forza lavoro in entrambi i paesi ora è impiegata in modo più efficiente: ognuno fa le cose che sa fare meglio, anziché essere costretto a fare ciò che sa fare con meno efficienza o male. I consumatori in entrambi i paesi ne hanno tratto un beneficio. Possono comprare ciò che vogliono dove costa meno. I consumatori americani sono riforniti meglio di prima di magliette, e i consumatori inglesi sono riforniti meglio di prima di automobili e lavatrici.


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Ora guardiamo la questione dall'altro lato, e vediamo quali sono gli effetti di imporre un dazio. Supponiamo che non ci siano dazi sui prodotti tessili, che gli americani siano abituati a comprarli dagli stranieri senza dazi. Ora qualcuno dice che, se mettessimo un dazio di 5 dollari sulle magliette, potremmo far nascere un'industria americana di magliette.

Questo argomento non ha nulla di sbagliato, per quel poco che afferma. E' ovvio che il costo delle magliette inglesi per i consumatori americani si può rendere alto a piacere, in modo artificiale. A un certo punto i produttori americani troverebbero conveniente entrare nel business delle magliette, e nascerebbe una nuova industria. Ma i consumatori americani starebbero di fatto sussidiando quell'industria. Per ogni maglietta americana che comprano, sarebbero costretti a pagare una tassa di 5 dollari, che sarebbe imposta su di loro dalla nuova industria di magliette grazie al prezzo più alto.

E' vero che l'industria di magliette darebbe lavoro a degli americani che prima non lavoravano in tale industria. Ma non ci sarebbe nessun beneficio netto, né per l'industria del paese né per il tasso di occupazione del paese. Visto che il consumatore americano deve pagare 5 dollari in più per magliette della stessa qualità, avrebbe esattamente 5 dollari in meno da spendere in altre cose. Dovrebbe ridurre di 5 dollari le sue spese in qualche altro settore. Per far nascere o crescere quell'industria, un centinaio di altre industrie dovrebbero rimpicciolirsi. Per dare un impiego a 20.000 persone in un'industria di magliette, ci sarebbero 20.000 persone in meno impiegate da qualche altra parte.


Ma la nuova industria sarebbe visibile. Potremmo facilmente contare il numero dei suoi impiegati, il capitale investito in essa, il valore di mercato dei suoi prodotti in dollari. Gli osservatori potrebbero vedere i lavoratori entrare e uscire dalla fabbrica ogni giorno. Il risultato sarebbe palpabile e diretto. Ma la riduzione di un centinaio di altre industrie, e la perdita di 20.000 posti di lavoro da qualche altra parte, non sarebbe così facile da notare. Sarebbe impossibile anche per lo statistico più brillante sapere esattamente quale è stata l'incidenza sugli altri posti di lavoro -- quante donne e uomini sono state licenziate da ciascuna industria particolare, o quanta è stata la perdita per ciascuna industria --- del fatto che i consumatori devono pagare di più le magliette. Infatti la perdita sarebbe distribuita tra tutte le attività produttive del paese, e quindi sarebbe relativamente piccola per ciascuna di esse. Sarebbe impossibile sapere esattamente come ogni consumatore avrebbe speso i suoi 5 dollari extra se gli fosse stato permesso di conservarli. Quindi la stragrande maggioranza delle persone cadrebbe probabilmente nell'illusione che la nuova industria non ci sia costata niente.

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E' importante notare che il nuovo dazio sulle magliette non farebbe aumentare i salari americani. Certo, permetterebbe agli americani di lavorare nella nuova industria al livello medio dei salari americani (per un lavoratore con quelle abilità), anziché dover competere nell'industria al livello inglese dei salari. Ma non ci sarebbe alcun aumento nei salari americani in generale. Perché, come abbiamo visto, non ci sarebbe alcun aumento netto nel numero di posti di lavoro, né alcun aumento netto nella domanda di beni, né alcun aumento nella produttività del lavoro. Anzi, la produttività del lavoro nel paese sarebbe ridotta in conseguenza del dazio.

E questo ci porta al vero risulato del dazio. Non è soltanto il fatto che i vantaggi visibili sono superati delle perdite, meno visibili ma non meno reali. E' che il paese subisce complessivamente una perdita. Perché, al contrario di quanto dice la propaganda interessata, il dazio riduce i salari americani.

Osserviamo più chiaramente perché il dazio fa ciò. Abbiamo visto che i 5 dollari in più che i consumatori pagano per un bene protetto da un dazio li priva esattamente della stessa quantità per comprare altri beni. Non c'è nessun vantaggio netto per l'industria nel suo complesso. Ma, a causa della barriera artificiale eretta contro i beni stranieri, la forza lavoro americana, il capitale e la terra sono stati dirottati da ciò che sanno fare meglio a ciò che sanno fare in modo meno efficiente. Quindi, come risultato del muro eretto dal dazio, la produttività media della forza lavoro e del capitale americano si riduce.


Se guardiamo la faccenda dal punto di vista del consumatore, troviamo che il consumatore può comprare meno cose con i suoi soldi. Poiché deve pagare di più per le magliette e altri beni protetti, può comprare meno di tutto il resto. Il potere d'acquisto complessivo del suo reddito si è quindi ridotto. Se l'effetto concreto del dazio sarà di diminuire i salari o di alzare i prezzi dipenderà dalla politica monetaria che è seguita. Ma il vero effetto del dazio, quando consideriamo tutti i posti di lavoro, non solo quelli protetti, è di ridurre i salari reali. (Anche se i salari nelle industrie protette possono salire rispetto a come sarebbero stati altrimenti). [Insomma, il dazio può aumentare i salari dei lavoratori protetti, ma sempre alle spese di tutti gli altri salari, NdM.]

Solo una mente corrotta da generazioni di propaganda interessata può considerare paradossale questa conclusione. Quale altro risultato dovremmo aspettarci da una politica che deliberatamente dirotta le nostre risorse di capitale e forza lavoro verso ciò che sanno fare in modo meno efficiente? Quale altro risultato potremmo aspettarci dall'introduzione di ostacoli artificiali al commercio e ai trasporti?

Erigere un muro di dazi è come erigere un muro reale. E' significativo che i protezionisti usino regolarmente il linguaggio della guerra. Parlano di "respingere l'invasione" dei prodotti stranieri. E le tecniche che suggeriscono nel campo fiscale sono quelle del campo di battaglia. Le barriere di dazi che vengono erette per respingere l'invasione sono come i carri armati, le trincee e i fili spinati, creati per respingere l'esercito straniero.

[...]


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Il dazio è spesso descritto come un modo di favorire il produttore alle spese del consumatore. In un certo senso questo è corretto. [...] Ma è sbagliato pensare che ci sia un conflitto tra l'interesse dei produttori come gruppo e quello dei consumatori come gruppo. Non è vero che il dazio favorisce tutti i produttori. Favorisce i produttori protetti alle spese di tutti gli altri produttori americani, e soprattutto quelli che hanno un mercato di esportazione potenzialmente grande.

Forse possiamo chiarire questo punto con un esempio esagerato. Supponiamo che il dazio fosse così alto da essere assolutamente proibitivo, e che non ci sia più alcuna importazione dal mondo esterno. Supponiamo che, come risultato, il prezzo delle magliette americane salga di soli 5 dollari al pezzo. Allora i consumatori americani, visto che devono pagare 5 dollari in più per una maglietta, spenderanno in media 5 centesimi in meno in ciascuna delle altre 100 industrie americane. (I numeri sono scelti solo per illustrare il principio. Naturalmente le perdite non saranno distribuite in modo uniforme. Inoltre, la stessa industria delle magliette sarà sicuramente danneggiata a causa della protezione accordata ad altre industrie ancora. Ma possiamo mettere da parte per un attimo queste complicazioni.)

Ora, poiché le industrie straniere troveranno il mercato americano completamente irraggiungibile, [non venderanno nulla agli americani, e quindi] non avranno dollari, e quindi non potranno comprare alcun bene in america. Come risultato, le industrie americane [non esporteranno più niente, e quindi] saranno danneggiate nella misura in cui i loro guadagni derivavano dall'export. Quelli più danneggiati, in prima istanza, saranno industrie come i produttori di cotone, di [copper], di macchine per cucire, di macchine agricole, di macchine da scrivere, ecc.

Un muro di dazi che non sia del tutto proibitivo produrrà gli stessi risultati, ma in misura minore.

L'effetto del dazio, quindi, è di cambiare la struttura della produzione americana. Cambia la proporzione dei posti di lavoro nelle varie industrie, il tipo di occupazione, e la grandezza relativa delle industrie. Rende più grandi le industrie più inefficienti, e più piccole le industrie più efficienti. Il suo effetto netto, quindi, è di ridurre l'efficienza americana, e di ridurre l'efficienza dei paesi con cui altrimenti avremmo commerciato di più.

A lungo andare, nonostante le continue polemiche, il dazio è irrilevante nella questione del tasso di occupazione (numero di posti di lavoro). (E' vero che improvvisi cambiamenti nei dazi, verso l'alto o verso il basso, possono creare temporanea disoccupazione, perché forzano dei cambiamenti nella struttura della produzione. Questi cambiamenti improvvisi possono persino causare una depressione.) Ma il dazio non è irrilevante nella questione dei salari. A lungo termine riduce i salari reali, perché riduce l'efficienza, la produzione e la ricchezza.

[..]

(Immagino che alcuni lettori chiederanno: "Perché non risolvere tutto questo proteggendo tutti i produttori con dei dazi?". Ma la fallacia in questo caso è che non possiamo proteggere tutti i produttori in modo uniforme, e non possiamo proteggere affatto i produttori domestici che riescono già da soli a sconfiggere i concorrenti stranieri: questi produttori efficienti soffrirebbero necessariamente dal dirottamento del potere d'acquisto prodotto dal dazio.)


[...]

Questo capitolo era diretto alle fallacie secondo cui un dazio, al netto, può "favorire l'occupazione", "alzare i salari", o "proteggere la qualità della vita americana". Non fa niente di tutto ciò; e per quanto riguarda i salari e la qualità della vita, fa esattamente l'opposto.

[...]

sabato 27 ottobre 2007

Perché l'evoluzione non può fare salti


Questo post è il sesto di una serie, iniziata su "Novissimo blog", dedicata alla teoria dell'evoluzione e al libro di Richard Dawkins "L'orologiaio cieco". (Episodi precedenti: 1. Perchè Dio non esiste; 2. Perché l'evoluzione non è casuale; 3. Come si evolve un organo complesso; 4. Il paradosso del mimetismo; 5. Progettazione non intelligente.)



Oggi ci soffermiamo sulla gradualità dell'evoluzione. La gradualità è una condizione assolutamente essenziale nella teoria dell'evoluzione. La teoria dell'evoluzione afferma che gli individui si evolvono gradualmente, cioè con una sequenza di mutazioni ciascuna delle quali è piccolissima. I "grandi salti" non possono mai giocare un ruolo importante nell'evoluzione di una specie. Perché? La ragione è che, secondo la teoria dell'evoluzione, le mutazioni sono del tutto casuali. Non c'è una "mente superiore" che le decide. Sono frutto del caso. E questo implica che non possono essere grandi. Infatti, che cosa succederebbe se ci fosse una mutazione casuale molto grande? Se applichiamo una mutazione casuale molto grande ad un organismo, la probabilità che l'organismo risultante sia ancora capace di sopravvivere è molto piccola. Quindi l'individuo morirebbe senza lasciare discendenti. In generale, più una mutazione casuale è grande, minore è la probabilità che produca un miglioramento nella capacità di sopravvivenza dell'organismo.

La parola a Dawkins.


Perché l'evoluzione deve essere graduale

Macromutazioni -- mutazioni che esercitano grandi effetti -- esistono senza dubbio. Quello che è in discussione non è se esistano, ma se svolgano un ruolo nell' evoluzione; se, in altri termini, vengano incluse nel pool genico di una specie o se, al contrario, vengano invariabilmente eliminate dalla selezione naturale. Un famoso esempio di macromutazione è l' «antennapedia» nella Drosophila. In un individuo normale le antenne hanno qualcosa in comune con le zampe, e si sviluppano nell'embrione in modo simile. Ma anche le differenze sono molto vistose e i due tipi di appendici vengono usati per fini molto diversi: le zampe per camminare, le antenne per la percezione tattile, per l'olfatto e per altri compiti connessi alla percezione. Le drosofile affette da antennapedia sono capricci della natura in cui le antenne si sviluppano esattamente come le zampe. O, per esprimerci in modo diverso, sono drosofile che, in luogo delle antenne, hanno un paio di zampe extra, cresciute nella stessa posizione in cui dovrebbero trovarsi le antenne. Questa è una vera mutazione, risultando da un errore nella copiatura del DNA, e si trasmette alla prole se le drosofile affette da questa malformazione vengono curate nell'ambiente protetto del laboratorio in modo da soopravvivere abbastanza a lungo da riprodursi. In natura esse non sopravviverebbero molto a lungo, poiché i loro movimenti sono goffi e i loro sensi vitali menomati.

Le macromutazioni, quindi, si verificano veramente. Ma svolgono un ruolo nell'evoluzione?

[Le teorie che dicono che le macromutazioni svolgono un ruolo rilevante si chiamano "saltazionistiche".]

[...]

Ci sono ottime ragioni per rifiutare tutte le teorie saltazionistiche dell'evoluzione. Una ragione piuttosto banale è che, se una nuova specie potesse avere veramente origine da una singola mutazione, i membri della nuova specie potrebbero avere difficoltà a trovare i propri partner sessuali. Io considero però questa ragione meno efficace e interessante delle altre due [..]. La prima di queste ragioni fu esposta dal grande statistico e biologo R.A. Fisher, che abbiamo incontrato in capitoli precedenti in altri contesti. Fisher fu un deciso oppositore di ogni forma di macroevoluzione [...] e usò la seguente analogia. Pensiamo, egli scrisse, a un microscopio che sia quasi, ma non del tutto, perfettamente a fuoco e altrimenti ben regolato per una visione nitida. Quali probabilità ci sono che, apportando allo stato del microscopio qualche mutamento a caso (corrispondente a una mutazione), miglioriamo la messa a fuoco e la qualità generale dell immagine? Fisher scrisse:

È abbastanza ovvio che qualsiasi intervento di grandi proporzioni avrà ben poche probabilità di migliorare la regolazione, mentre, nel caso di alterazioni molto minori di quelle che vengono apportate intenzionalmente dal costruttore o dall'operatore, la probabilità di un miglioramento dovrebbe essere quasi esattamente del 50 per cento.

Ho già osservato che quel che sembrava a Fisher «facile vedere» potrebbe mettere in grossa difficoltà uno scienziato comune, e lo stesso vale anche per ciò che Fisher definisce «abbastanza ovvio». Nondimeno, [..] in questo caso possiamo dimostrarlo con nostra soddisfazione senza eccessiva difficoltà. Ricordiamo che stiamo supponendo che il microscopio sia quasi perfettamente a fuoco prima che diamo inizio ai nostri interventi. Supponiamo che l'obiettivo sia troppo in basso, ossia troppo vicino di un millimetro al vetrino, perché lo strumento possa essere perfettamente a fuoco. Ora, se spostiamo l'obiettivo di un intervallo piccolissimo, diciamo di un decimo di millimetro, in una direzione casuale, quali saranno le probabilità che la messa a fuoco migliori? Se lo abbassiamo verso il vetrino di un decimo di millimetro, la messa a fuoco pegggiorerà, mentre migliorerà se lo alziamo di un decimo di millimetro. Poiché stiamo intervenendo a caso, la probabilità per ciascuna di queste evenienze è un mezzo, ossia 50 per cento. Quanto più piccolo è il movimento di regolazione, in relazione all'errore iniziale, tanto più la probabilità di miglioramento si avvicinerà a un mezzo. Questa conclusione completa la giustificazione della seconda parte dell' affermazione di Fisher.

Supponiamo ora di spostare l'obiettivo del microscopio di una grande distanza - equivalente a una macromutazione -, anche questa volta in una direzione casuale. Supponiamo per esempio di muoverlo di un centimetro. Ora, non importa in quale direzione operiamo questo movimento, in alto o in basso, il risultato sarà comunque quello di peggiorare la messa a fuoco rispetto a quella che era prima. Se ci capita di spostare l'obiettivo verso il basso, esso si troverà a undici millimetri dalla sua posizione ideale (e sarà andato probabilmente a frantumare il vetrino). Se ci capita invece di spostarlo verso l'alto, esso si troverà ora a nove millimetri dalla sua posizione ideale. Prima dei nostri interventi, esso si trovava a un solo millimetro dalla sua posizione ideale, cosicché, in un modo come nell'altro, la nostra «macromutazione» ha avuto effetto dannoso.

Abbiamo fatto il calcolo per una mossa grandissima (macromutazione) e per una mossa piccolissima (micromutazione). Potremmo fare ovviamente lo stesso calcolo per una varietà di mosse di grandezza intermedia, ma non caveremmo nulla di utile. Io penso che in realtà sia ora abbastanza ovvio che, quanto più piccolo sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo al caso estremo in cui le probabilità di un miglioramento saranno del 50 per cento; e quanto più grande sarà il nostro intervento, tanto più ci avvicineremo all'altro estremo, in cui le probabilità di un miglioramento saranno zero.

Questo ragionamento, come il lettore avrà notato, dipende dall'assunto iniziale che, prima che noi cominciassimo i nostri tentativi casuali di messa a punto, il microscopio fosse già abbastanza vicino a una messa a fuoco perfetta.
Se inizialmente l'obiettivo del microscopio è lontano 2 centimetri dalla posizione corrispondente alla messa a fuoco, un mutamento casuale di 1 centimetro avrà un 50 per cento di probabilità di essere un miglioramento, esattamente come un mutamento casuale di un centesimo di centimetro. In questo caso la «macromutazione» sembra presentare il vantaggio di muovere più rapidamente l'obiettivo verso una messa a fuoco ottimale. Il ragionamento di Fisher sul carattere dannoso delle macromutazioni si applicherà qui a «megamutazioni» costituite, per esempio, da un movimento di 6 centimetri in una direzione casuale.


Perché, allora, Fisher poté fare il suo assunto iniziale che il microscopio fosse quasi a fuoco? L'assunto deriva dal ruolo svolto nell'analogia dal microscopio. Il microscopio dopo il tentativo di regolazione casuale sta per un animale mutante. Il microscopio prima del tentativo di messa a fuoco casuale sta per il genitore normale, non mutante, del presunto animale mutante. Essendo un genitore, dev'essere sopravvissuto abbastanza a lungo per riprodursi, e perciò non può che essere abbastanza vicino a una buona messa a punto. [Non può che essere già molto adatto all'ambiente in cui vive, NdM]. Per la stessa ragione, il microscopio prima dell'intervento casuale non può essere molto lontano da una buona messa a fuoco, giacché in caso contrario l'animale da esso rappresentato nell'analogia non avrebbe potuto sopravvivere. Questa è solo un'analogia, e non ha senso stare a discutere se «abbastanza vicino» significhi un centimetro o un decimo di centimetro o un millesimo di centimetro. Il punto importante è che, se noi consideriamo mutazioni di grandezza sempre crescente, verrà un punto in cui, quanto più grande è la mutazione, tanto meno probabile è che essa sia benefica; mentre, se consideriamo mutazioni di grandezza sempre decrescente, verrà un momento in cui la probabilità che una mutazione sia benefica sarà del 5O per cento.

Il ragionamento sul problema se macromutazioni come l'antennapedia possano mai essere benefiche (o almeno se si possa evitare che siano dannose), e se possano quindi dare origine al mutamento evolutivo, ruota dunque attorno al problema di quanto sia «macro» la mutazione che stiamo, considerando. Quanto più «macro» essa è, tanto più probabile è che sia deleteria, e tanto meno probabile che venga incorporata nell'evoluzione di una specie. In effetti, praticamente tutte le mutazioni studiate nei laboratori di genetica -- le quali sono abbastanza macro, altrimenti i genetisti non le rileverebbero -- sono deleterie agli animali che le posseggono (per una curiosa ironia, ho conosciuto persone le quali pensano che questo sia un argomento contro il darwinismo!).

(fine dell'episodio)

[Ora che abbiamo capito che nella teoria dell'evoluzione le mutazioni devono essere graduali, e non possono avvenire grandi salti, siamo pronti per affrontare una obiezione dei creazionisti, che riguarda i "salti" e i "buchi" presenti nei fossili. Le vedremo sotto forma di quiz nel prossimo episodio. NdM]

venerdì 26 ottobre 2007

Lo Stato non può mai creare lavoro

(Questo post fornisce anche la risposta al quiz precedente.)

Una fallacia classica in economia afferma che lo Stato può diminuire la disoccupazione assumendo i disoccupati in qualche settore pubblico. In realtà è impossibile diminuire la disoccupazione in questo modo. Infatti, per ogni posto di lavoro che lo Stato crea in questo modo, ne distrugge uno da qualche altra parte. Anzi, di solito più di uno. Scopo di questo post è illustrare perché ciò avviene.

Secondo l'economista Henry Hazlitt, il 90% delle fallacie in economia sono casi particolari di un'unica fallacia: considerare solo gli effetti visibili di un evento, e non quelli invisibili. Ricordate la fallacia della vetrina rotta? L'errore era considerare solo il beneficio visibile per il vetraio, ma non il danno invisibile per il sarto. Se il fornaio non avesse dovuto pagare il vetraio per ricostruire il vetro, avrebbe dato lavoro al sarto. Ma nessuno si accorge della perdita del sarto, mentre tutti si accorgono del beneficio per il vetraio. Tutti vedranno la vetrina nuova, tra qualche giorno. Ma nessuno vedrà il vestito nuovo, proprio perché non sarà mai prodotto.

Ebbene, anche l'argomento che "lo Stato può diminuire la disoccupazione" è un caso particolare di questa fallacia. Vediamo perché.

Supponiamo che qualcuno sostenga la costruzione da parte del governo, diciamo, di un ponte, dicendo che servirà a diminuire la disoccupazione. La parola ad Hazlitt.

L'argomento dei sostenitori della spesa pubblica è che il ponte darà lavoro alle persone. Produrrà, diciamo, 500 posti di lavoro all'anno. Posti di lavoro che altrimenti non sarebbero esistiti.

Questo è in effetti l'effetto visibile, ciò che tutti vedranno. Ma noi tutti dovremmo imparare a guardare oltre le conseguenze immediate di una politica, fino alle conseguenze secondarie. E non dovremmo considerare solo coloro che traggono beneficio diretto dal progetto governativo, ma anche quelli che ne sono indirettamente danneggiati. Se fossimo abituati a far ciò, vedremmo una situazione completamente diversa.

E' vero che quel particolare gruppo di persone che lavora al ponte otterrà un lavoro che altrimenti non avrebbe avuto. Ma questo ponte deve essere pagato in qualche modo. E sarà pagato con le tasse. Per ogni dollaro che viene speso per il ponte, ci sarà un dollaro sottratto ai contribuenti. Se il ponte costa 10 milioni di dollari, i contribuenti perderanno 10 milioni di dollari. 10 milioni che altrimenti avrebbero speso in qualche altro modo, per le cose di cui hanno maggior bisogno, dando lavoro a qualcun altro. Quindi, per ogni posto di lavoro pubblico che viene creato dal progetto governativo, è stato distrutto un posto di lavoro nel privato, da qualche altra parte.

Tutti noi abbiamo di fronte agli occhi le persone che lavorano al ponte. Le vediamo mentre lavorano. I sostenitori della spesa pubblica sembrano quindi dalla parte del giusto, per chi non sa vedere oltre i suoi occhi fisici. E molte persone si convincono che abbiano ragione. Ma ci sono altre cose che non vediamo, perché, ahimé, non viene permesso loro di esistere. Sono i posti di lavoro distrutti dai 10 milioni di dollari sottratti ai contribuenti.

In realtà tutto quello che è successo (quando va bene) è che c'è stata una diversione dei posti di lavoro da un settore ad un altro, a causa del progetto governativo. Più costruttori di ponti, ma meno costruttori di automobili, tecnici della televisioni, sarti, agricoltori, ecc.

(Economics in One Lesson, capitolo 4)


Insomma, lo stato non può mai creare posti di lavoro semplicemente assumendo persone. Infatti, se lo Stato assume qualcuno, deve pagarlo con le tasse. Sottrarrà soldi ai cittadini. E in questo modo distruggerà altrettanti posti di lavoro, che sarebbero stati creati dai cittadini stessi con l'atto di spendere quei soldi. I posti distrutti controbilanciano esattamente i posti creati. Anzi, sono un po' di più, per motivi che esulano dallo scopo di questo post e che forse vedremo in seguito.



Ora una considerazione. Questo è uno di numerosi casi in cui lo Stato Sociale dice di fare il bene della comunità, ma finisce per fare soltanto gli interessi di gruppi particolari. E' vero che crea posti di lavoro per qualche gruppo privilegiato, ma lo fa alle spese di altri gruppi, più deboli e meno rappresentati. Quei politici che sostengono che lo Stato deve "dare lavoro" sono spesso nel libro paga di quei gruppi di potere che vengono privilegiati, oppure sono persone in buona fede che vengono assunte come frontmen da quei gruppi di interesse, per ingannare i cittadini.



Questo termina il discorso iniziato nel post precedente. Abbiamo fatto vedere che, con i sussidi di stato, da una parte il paese diventa più povero, dall'altra non si creano nuovi posti di lavoro. Infatti, per sussidiare la Fiat, lo stato deve tassare i cittadini. Per ogni posto di lavoro che salva nella Fiat, ce n'è uno distrutto altrove. Questo termina il discorso sui sussidi.

Per terminare il discorso del protezionismo, basta far vedere che i dazi sono equivalenti ai sussidi. Ma questo non è difficile. I sussidi sono una tassa, i dazi sono una tassa nascosta. Infatti, l'effetto dei dazi è di alzare i prezzi per i consumatori. Dovendo i consumatori pagare di più per i prodotti protetti da dazi, resteranno loro meno soldi di prima, soldi che altrimenti avrebbero speso da qualche altra parte, dando lavoro a qualcun altro, che ora invece non lavorerà. E' per questo che sussidi e dazi sono equivalenti: non è importante se i consumatori hanno meno soldi da spendere perché sono più tassati, o perché alcuni prodotti costano di più. Ciò che conta è che hanno meno da spendere. Vedremo meglio tutto questo nel prossimo post, dedicato interamente ai dazi.

giovedì 25 ottobre 2007

Quiz. Proteggere i posti di lavoro danneggia il paese

Continuiamo la sequenza di quiz sull'economia, perché mi sembra divertente (e utile).

Quando un'azienda italiana è in difficoltà, è comune che lo Stato cerchi di aiutarla per proteggere i posti di lavoro di quelle persone. L'aiuto prende tipicamente la forma di sussidi oppure di dazi. Questo si chiama protezionismo.

Scopo di questo post è far vedere che questa pratica, in entrambe le forme, è controproducente. Il protezionismo aiuta sì quei lavoratori, ma alle spese di altri lavoratori. Per ogni posto di lavoro che lo Stato salva, ce n'è almeno uno che distrugge da qualche altra parte. Ed inoltre il paese si impoverisce, per motivi che vedremo.


Cominciamo con una osservazione elementare. Quando è che una comunità (una famiglia, una azienda, un condominio, ecc) diventa più ricca? Risposta: quando in quella comunità entra di più di ciò che esce. Quando è che una comunità diventa più povera? Quando ciò che esce vale di più di ciò che entra.

Ad esempio, prendiamo una compagnia che produce automobili. Se la compagnia ha speso 1000 dollari per costruire l'automobile, e vende l'automobile a 800 dollari, la compagnia diventa più povera.

Tutto questo è ovvio. Ebbene, lo stesso vale per un Paese. Un Paese si arricchisce quando le cose che entrano valgono di più di quelle che escono. Se invece le cose che escono valgono di più di quelle che entrano, il Paese si sta impoverendo.

Quindi, l'ideale per un paese sarebbe importare tanto ed esportare il meno possibile. (Molte persone credono il contrario. Credono che la ricchezza di un paese si giudichi dalla quantità di export. Non è vero. L'export è solo il prezzo che noi paghiamo per avere l'import. E' una cosa di cui faremmo volentieri a meno, perché stiamo dando via qualcosa.)

Comunque, la cosa da tenere a mente è questa: se dal Paese esce un'automobile la cui produzione è costata 1000 dollari, e nel Paese entrano solo 900 dollari, il Paese si è impoverito.

Cosa c'entra tutto questo col protezionismo? Tra poco sarà chiaro.

Supponiamo ci sia una compagnia italiana in difficoltà, diciamo la Fiat. Essa non riesce a competere con le compagnie straniere, e sta per fallire. Chiede aiuto allo Stato, minacciando di licenziare i suoi lavoratori. Lo Stato, per proteggere il posto di lavoro di quelle persone, decide di aiutare l'azienda a sopravvivere. Ci sono due modi per lo Stato di attuare questa protezione:

1. dare alla Fiat dei sussidi, presi dalle tasse dei contribuenti, grazie ai quali la Fiat potrà abbassare i prezzi e restare competitiva;

2. mettere dei dazi sulle importazioni di automobili straniere; questo alzerà i prezzi delle auto straniere per chi compra dall'Italia, rendendo la Fiat di nuovo competitiva.

Vi anticipo che i due sistemi, dazi e sussidi, sono equivalenti. Comunque analizziamoli uno per uno. Esaminiamo prima il primo sistema, quello dei sussidi.

1. Sussidi di stato

I sussidi permettono effettivamente alla Fiat di abbassare i prezzi e tornare competitiva con le compagnie straniere. Inoltre salvano i posti di lavoro degli operai Fiat. Sembra che tutti ne traggano un guadagno. Allora perché mai questa pratica dovrebbe essere dannosa per il Paese?

La ragione è la seguente. Ricordate che siamo sotto l'ipotesi che, senza sussidi, la Fiat non riesce a competere con gli avversari. Cioè, non riesce ad abbassare i prezzi più di tanto. E perché non riesce ad abbassarli? Perché, se li abbassasse ancora, non recupererebbe le spese di produzione. Se li abbassasse ancora, finirebbe per vendere automobili a meno di quello che ha speso per produrle. E questo la Fiat non lo può fare.

Ora chiediamoci: che cosa sta facendo lo Stato per mezzo dei sussidi? Lo Stato, grazie ai sussidi, sta permettendo alla Fiat di fare dei prezzi che altrimenti non potrebbe fare. Cioè di vendere un'automobile a un prezzo minore di ciò che è costato produrla. Cioè, sta consentendo a quella compagnia di vendere sottocosto.

Dal punto di vista del paese, cosa significa questo? Significa che il paese sta vendendo in perdita agli stranieri. Lo Stato sta tassando i suoi cittadini per permettere alla Fiat di vendere sottocosto agli stranieri. Ed è proprio questo il motivo per cui il paese si impoverisce. Ciò che esce dal paese è maggiore di ciò che entra. Il paese sta vendendo automobili agli stranieri a un prezzo minore di quello che è costato produrle. Stiamo vendendo a 800 quello che ci è costato 1000. Stiamo quindi facendo un regalo ad altri paesi. Per ogni automobile che vendiamo, diventiamo un po' più poveri.


Considerazione. Notate che, mentre il Paese si impoverisce, la Fiat si arricchisce. Infatti, la Fiat non sta vendendo in perdita, perché i sussidi ricevuti dallo Stato trasformano il suo passivo in un attivo, e fanno sì che al netto la Fiat abbia un guadagno. Ma è il paese che sta vendendo in perdita (perché ciò che esce è costato di più di ciò che entra). Quindi la Fiat si arricchisce alle spese di tutti gli altri cittadini. Questo è solo uno dei tanti casi in cui lo Stato dice di fare il bene della comunità, ma finisce per promuovere soltanto interessi particolari. Tutti i politici che dicono di voler proteggere i posti di lavoro sono in realtà politici ignoranti o corrotti: fanno gli interessi di gruppi particolari, alle spese del paese.



Obiezione. L'obiezione classica è che è vero che il Paese è più povero, ma ha comunque un guadagno di altro tipo: ha guadagnato in "posti di lavoro". Dopo tutto, senza i sussidi la Fiat avrebbe chiuso, e quegli operai sarebbero finiti in mezzo alla strada! Invece così lavorano più persone. Quindi non importa se lo stato è più povero, perché la ricchezza è distribuita meglio. E' vero questo?

Purtroppo no. E' una fallacia. Non è vero che lavorano più persone. In realtà, per ogni posto di lavoro salvato nella Fiat, ce n'è un altro distrutto da qualche altra parte. Riuscite a vedere perché? La soluzione nel prossimo episodio. (Suggerimento: il ragionamento da fare è molto simile a quello del post precedente, dove c'è il vandalo che sfonda il vetro).

(Il caso 2, quello dei dazi, sarà esaminato in seguito, ma vi anticipo che è equivalente)

martedì 23 ottobre 2007

Quiz. Dov'è l'errore?

Vediamo se qualcuno dei miei cinque lettori riesce a trovare la fallacia in questo ragionamento economico. :)


Un ragazzo lancia un mattone contro la vetrina di un negozio di un fornaio, sfondandola. Il fornaio corre fuori furioso, ma il giovane vandalo è fuggito. Si raccoglie una folla, e comincia a guardare con soddisfazione il buco nel vetro. Molte persone ricordano al fornaio che, dopo tutto, c'è un lato positivo. Questo evento darà lavoro a qualche vetraio. Dopo tutto, se i vetri non si rompessero mai, che ne sarebbe dell'industria del vetro? Invece, così si ha un beneficio infinito. Infatti, quanto ti costa la vetrina sfondata? Cinquanta dollari? Allora il vetraio avrà 50 dollari in più, che spenderà in qualche modo, dando lavoro a qualche altro professionista; e costui a sua volta avrà 50 dollari in più da dare a qualcun altro, e così via all'infinito. La finestra rotta continuerà così a produrre soldi per molte persone, e a dare lavoro a molte persone, in un cerchio che si espande all'infinito. La conclusione logica è che il ragazzo che ha lanciato il mattone non è stato un vandalo, ma un benefattore pubblico.

(Tratto da Economics in One Lesson di Henry Hazlitt)

Dov'è l'errore?


Soluzione

L'enigma è stato risolto dopo 10 minuti da Flavio Fusco. Complimenti!

Ecco la soluzione in dettaglio.

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Se dobbiamo indicare l'errore esatto nel ragionamento, è questo: il fornaio ora dovrà spendere 50 dollari che altrimenti avrebbe speso per qualcos'altro. Ad esempio per un vestito nuovo. Quindi è vero che il vetraio sarà più ricco, ma il sarto sarà più povero. La perdita del sarto controbilancia esattamente il guadagno del vetraio. E inoltre il paese nel suo complesso è più povero, perché la perdita del fornaio non è controbilanciata da nulla.

Ecco la spiegazione dettagliata di Henry Hazlitt:

La folla dice il vero nella sua prima osservazione. Questo piccolo atto vandalico produrrà davvero più lavoro per qualche vetraio. Il vetraio sarà felice di sapere che è avvenuto l'incidente, tanto quanto un becchino quando apprende di una morte. Ma al fornaio mancheranno 50 dollari che aveva in mente di spendere per un vestito nuovo (o qualche bene equivalente). Invece di avere una finestra e 50 dollari, adesso avrà solo una finestra. Oppure, visto che aveva in mente di comprare il vestito quello stesso pomeriggio, invece di avere un vestito e una finestra adesso si dovrà accontentare di una finestra e niente vestito.

Se consideriamo il tutto dal punto di vista della comunità, risulta che la comunità ha perso un nuovo vestito che altrimenti sarebbe esistito. La comunità è più povera di un vestito.

Il guadagno del vetraio è compensato esattamente dalla perdita di lavoro del sarto. Nessun nuovo "posto di lavoro" è stato creato.

Le persone nella folla stavano considerando solo due parti nella transazione, il fornaio e il vetraio. Avevano dimenticato la terza parte potenziale, il sarto. Lo hanno trascurato perché non è ora che lui entra in scena. Essi vedranno la nuova finestra tra un paio di giorni. Ma non vedranno mai il vestito nuovo, proprio perché non sarà mai prodotto. Sono capaci di vedere solo quello che è immediatamente sotto i loro occhi.


Aggiornamento. Visto che qualcuno non è convinto, provo a spiegarvelo in un altro modo ancora.

In questa faccenda, ci sono due persone che hanno perso 50, e solo una che ha guadagnato 50.

Infatti, il vetraio ha avuto 50 dollari che altrimenti non avrebbe avuto. Il sarto ha perso 50 dollari che altrimenti avrebbe avuto. E questi due si annullano a vicenda. Ma la perdita del fornaio non è controbilanciata da nulla. A fronte della perdita del fornaio, non c'è nessuno che guadagni qualcosa.

Quindi il paese subisce una perdita netta di un vestito, o di 50 dollari (che è lo stesso).

venerdì 19 ottobre 2007

Diminuire le tasse ai ricchi aiuta soprattutto i poveri

Trascrivo il recente discorso di Antonio Martino (audiovideo) sui benefici delle tasse basse e in particolare della flat-tax (tassa piatta, cioè una sola aliquota. Ad esempio, "tutti pagano il 20% di quel che guadagnano, tranne i poveri che sono esenti").

In questo discorso Martino fornisce fortissima evidenza, tratta dall'esperienza di altri paesi, che abbassare le tasse ai ricchi fa pagare più tasse ai ricchi. E quindi fa aumentare il gettito fiscale. Martino spiega poi la ragione di questo controintuitivo fenomeno. Se le tasse che devi pagare sono più alte di una certa soglia, per te diventa più conveniente eludere anziché produrre. Dedicherai quindi la maggior parte dei tuoi sforzi ad eludere anziché a produrre. Spenderai molti soldi per pagare i migliori tributaristi per individuare modi legali ed illegali di pagare meno. Organizzerai la tua intera attività con un occhio alle conseguenze tributarie più che alla produttività. Con tasse basse, invece, concentrerai molte meno energie su tutte queste cose, e quindi inevitabilmente ti troverai a dichiarare di più, e a versare di più al fisco.

Il discorso di Martino contiene molti altri temi importanti, come la semplificazione della burocrazia che seguirebbe dall'introduzione di una sola aliquota bassa. Questa semplificazione darebbe ulteriori vantaggi.

La parola a Martino. Leggete fino alla fine perché lì sono i dati più importanti.






Ringrazio Daniele Capezzone per avermi invitato a parlare di quello che è un mio chiodo fisso da tanto tempo. Mi sono sempre occupato di tasse, non perché ne capisca qualcosa, ma per legittima difesa. Perché dal momento che loro si occupano di me, io mi occupo di loro. E in secondo luogo perché l'idea della "flat tax" è stata in tempi moderni riproposta da una persona nei cui confronti ho un enorme debito di gratitudine, e che recentemente sono andato a Lichtenstein a ricordare: Milton Friedman. Nel 1956 Milton Friedman tenne una conferenza al Claremont College in California dedicata alla distribuzione del reddito. Quella conferenza venne poi ristampata in "Capitalismo e libertà" nel 1962. Fra le altre cose, in quel capitolo Friedman lancia una proposta che allora appariva semplicemente provocatoria: passare da un sistema tributario basato su molte aliquote, rapidamente progressive, nominalmente , ad un sistema basato su una sola aliquota. La cosiddetta flat tax. Nel 1959, l'anno a cui lui faceva riferimento, negli Stati Uniti le aliquote di imposta sul reddito andavano dal 20% al 90% (novanta per cento!), raggiungendo il 50% già a partire da imponibili superiori a 18.000 $ l'anno per il contribuente singolo, e 36.000$ l'anno per una coppia sposata che presentasse una dichiarazione congiunta. Milton Friedman dimostrò che con un'unica aliquota al 23.5% si sarebbe ottenuto lo stesso gettito, o addirittura un po' di più di quello che si otteneva con quella pluralità di aliquote da confisca. E non solo: se contemporaneamente si fossero abolite tutte le scappatoie fiscali (tranne le detrazioni delle spese sostenute per la produzione di reddito) il gettito sarebbe stato molto superiore. Secondo Friedman una flat tax, anche senza alcuna modifica della legislazione esistente, avrebbe prodotto un maggior gettito per l'erario perché il reddito dichiarato si sarebbe elevato. Questo per 3 ragioni:

1. Si sarebbe ridotto l'incentivo ad adottare misure, legali ma costose, per ridurre le dimensioni dell'imponibile. (La cosiddetta elusione e la cosiddetta erosione.)

2. Ci sarebbe stato un minore incentivo a dichiarare meno del dovuto. (Evasione)

3. L'impiego delle risorse sarebbe divenuto più razionale, perché si sarebbero rimosse le distorsioni introdotte dalla pluralità delle aliquote.

Sul terzo punto vorrei fare un esempio banalissimo. Mettetevi nei panni di un contribuente che ha a che fare con un'aliquota marginale massima del 50%. Se produce un milione, gli restano 500.000. Se elude un milione, gli resta un milione. Quindi per lui eludere vale il doppio che produrre. E' il doppio più vantaggioso. Quindi dedicherà il doppio degli sforzi ad eludere anziché a produrre. E' molto meglio, quindi, ridurre l'aliquota, perché questo riduce la convenienza ad eludere anziché produrre. Ecco perché la riduzione delle tasse incentiva la produzione.

Ora vorrei citare alcuni passi di questo saggio di Friedman. Lui diceva "l'aliquota per i più ricchi oggi è del 90%. Ma allora come mai rende così poco?". Dice Friedman:

Se il gettito delle aliquote attuali, altamente progressive, è così basso, altrettanto basso sarà il loro effetto redistributivo.

Questo non significa che facciano pochi danni. Al contrario. Il gettito è così basso in parte perché alcuni tra i più competenti professionisti del paese dedicano le loro energie alla individuazione di modi per tenerlo basso, e in parte perché altri individui organizzano la loro attività produttiva con un occhio alle conseguenze tributarie che ne conseguono. Tutto ciò rappresenta per il Paese uno spreco allo stato puro. Cosa otteniamo in cambio? Al massimo, un senso di soddisfazione da parte di alcuni nel sapere che lo Stato sta redistribuendo il reddito. E anche quella soddisfazione è fondata sulla ignoranza degli effetti concreti della struttura fiscale progressiva. Ed evaporerebbe immediatamente se i fatti fossero noti. Le attuali alte aliquote nominali sulle fasce alte di reddito e quelle di successione non possono essere giustificate, se non altro perché rendono così poco.

Pensate: l'imposta di successione sulle donazioni, che il governo Berlusconi abolì, rendeva in tutto 1750 miliardi di lire all'anno. Cioè praticamente niente. Continua Friedman:

Come liberale, non riesco a considerare giustificata la tassazione progressiva solo perché redistribuirebbe il reddito. Questo mi sembra un caso chiaro di usare coercizione per prendere ad alcuni in modo da dare ad altri. Il che è in evidente contrasto con la libertà individuale. E' molto diversa la situazione in cui il 90% della popolazione decide di tassarsi, e di esentare il restante 10%, dalla situazione in cui il 90% approva imposte punitive sul restante 10%. Che è quello che accade negli Stati Uniti. Una flat tax proporzionale produrrebbe esborsi assoluti più alti per quelli che godono di redditi più alti, come contropartita per i maggiori servizi resi dallo stato; ma eviterebbe la possibilità che una maggioranza approvi imposizioni di tributi sulla minoranza, lasciando inalterato il carico gravante su sé stessa.

Poi, come sapete, in America la situazione è molto cambiata, con le due riforme fiscali di Kennedy nel 1960 e poi di Reagan: Kennedy portò l'aliquota marginale massima dal 90% al 70%, poi le 2 riforme di Reagan agli inizi degli anni 80 la portarono dal 70% al 28%. Dirò poi dell'effetto di quelle due riforme.

Ora qualche considerazione mia. A me sembra che l'idea sia semplice da comunicare, facile da capire ed accattivante. Faceva parte del programma di Forza Italia nel 1994, e io credo che spiazzerebbe davvvero gli statalisti di tutti i colori [...]. Ieri il mio amico [..] ha dato una definizione bellissima dello Stato: "lo Stato è quella entità che protegge la proprietà privata da tutti fuorché da se stesso".

I vantaggi della flat tax sono semplici da capire.

Con una sola aliquota e la chiusura della miriade di scappatoie fiscali, chiunque sarebbe in grado di assolvere da solo i suoi doveri col fisco, e di capire esattamente come il meccanismo funzioni. Vi ho detto prima che mi occupo di tasse. Mi occupo di tasse da una vita. Sono laureato in giurisprudenza. Insegno economia, e così via. Ma non sono mai riuscito a fare da me la dichiarazione dei redditi. [Applausi] Eppure io ho solo redditi da lavoro dipendente, per cui dovrebbe essere facilissimo. Ma non riesco a farla. Intanto mi viene l'orticaria quando prendo in mano...


Chi ci rimetterebbe? Ci rimetterebbero i "mandarini", cioè i grandi esperti che riescono ad orientarsi in questo insieme farraginoso, contorto e contraddittorio di norme tributarie. Tutti gli altri ne ricaverebbero un beneficio. Vi siete mai chiesti cosa c'è di strano in un Paese in cui, in tutte le province italiane, i maggiori contribuenti sono notai o tributaristi? Se i tributaristi guadagnano tanto, vuol dire che il sistema tributario è complesso, contorto e farraginoso, e che solo loro lo capiscono. Dispiacerà al mio amico Tremonti: guadagnino un po' di meno, ma rendiamo più semplice il sistema tributario. [Applausi].


Il secondo vantaggio dell'aliquota unica sarebbe la leggerezza. Perché, grazie alla chiusura delle scappatoie tributarie, con un'unica aliquota bassa si riuscirebbe a far incassare all'erario lo stesso gettito o addirittura maggiore. Vi do i dati per l'Italia. Nel 2006 il gettito dell'irpef è stato di 150.248 milioni di euro. Il 9.4% del PIL. Ripeto; il nove virgola quattro percento del pil. E questo è il gettito di tutte le imposte dirette. Se fosse possibile abolire tutte le detrazioni, le deduzioni, chiudere tutte le scappatoie, impedendo quindi l'erosione e l'elusione, un'unica aliquota del 9.4% renderebbe quanto l'attuale sistema progressivo. E questo non tenendo conto delle conseguenze benefiche che questa aliquota produrrebbe sul reddito prodotto, incentivando l'attività economica.


Ma io credo che il vantaggio maggiore dell'aliquota unica sia l'aumento del gettito. Perché l'adozione di un'unica aliquota, bassa, scoraggerebbe, come ho detto prima, tutte le forme legali di renitenza al pagamento delle imposte (elusione ed erosione).

Infine lo sviluppo economico. La riforma fornirebbe un formidabile incentivo al lavoro, al risparmio, all'investimento, all'afflusso di capitali dall'estero, promuovendo lo sviluppo. Questo è ciò di cui l'Italia ha bisogno.

Ora vi riferirò dei dati. Premetto però che fanno riferimento a 2 anni fa.

Il successo dell'idea è stato notevole specie nei paesi dell'europa centrale o orientale. Il primo paese ad adottare la flat tax è stato l'Estonia, nel 1994, inizialmente con un'aliquota del 26%, che poi nel 2005 è stata ridotta al 24%. [Oggi sembra essere al 22%, NdM.]. Poi nel 1995 è stata la volta della Lituania, con un'unica aliquota del 25%. La storia più clamorosa è quella della federazione russa, che nel 2000 ha sostituito il sistema a 3 scaglioni, con aliquote che arrivavano al 30%, con una flat tax del 13%. I risultati in Russia, come negli altri paesi, sono stati clamorosi: un notevole aumento di entrate per l'erario, che sono raddoppiate in soli 4 anni; la diminuzione dell'economia sommersa, dell'elusione e dell'erosione. Nel 2003, la serbia ha adottato un'aliquota unica del 14%, sia sul reddito delle persone fisiche che delle società, ed è intenzionata a ridurre ulteriormente le aliquote. Nel 2004 l'Ucraina ha copiato il modello russo, con una flat tax del 13%, che sostituiva ben 5 scaglioni con aliquote che andavano dal 10% al 40%. Sempre nel 2004, la Slovacchia ha adottato un'aliquota unica del 19%, sia sui redditi individuali sia su quelli societari, sostituendo 5 aliquote su redditi personali, dal 10 al 38%, e una su quelli societari del 25%. In Georgia il presidente Saakashvili, 5 giorni dopo la sua investitura, ha annunciato l'intenzione di adottare un sistema di flat tax. IL 27 dicembre 2004 il parlamento georgiano ha approvato, con 107 voti a favore e 11 contrari, un'aliquota unica sui redditi individuali del 12%, al posto delle 4 esistenti che andavano dal 12 al 20%. Il presidente Rumeno Basescu, come aveva promesso in campagna elettorale, ha introdotto un'aliquota unica del 16% sui redditi individuali e societari, al posto di un sistema di 5 aliquote che andavano dal 18 al 40%. Infine i partiti di opposizione in altri paesi dell'europa orientale come la Polonia e la Repubblica Ceca sostengono l'adozione di un'unica aliquota del 15%.

E nel resto del mondo? La Cina sta contemplando di introdurre il sistema proporzionale ed ha invitato il mio amico Alvin Rabuska, che è uno studioso della [?] Institution di Stanford, California, e che da anni sostiene la flat tax, [..] a illustrare al ministero delle finanze questa proposta, e ha tradotto in cinese il suo libro dedicato all'argomento. In Finlandia, uno dei leader dell'opposizione ha basato la sua campagna elettorale sulla promessa di passare all'aliquota unica. In Spagna, il governo socialista di Zapatero sta studiando l'introduzione di un'aliquota unica, che è raccomandata dai suoi consiglieri economici. Persino il governo socialista tedesco di Schroeder ha studiato la possibilità di fare lo stesso. Un gruppo di 29 esperti del ministero delle finanze ha proposto l'introduzione di un'aliquota unica del 30% su tutti i redditi, al posto dell'attuale sistema che prevede un'aliquota massima del 45% sui redditi personali e una societaria del 38.3%.

Quali obiezioni vengono mosse alla flat tax?


La prima è che sarebbe incostituzionale, perché c'è un articolo della Costituzione che dice che il sistema tributario è improntato a criteri di progressività. Non è vero. Perché la progressività si può ottenere o come facciamo noi attualmente, con una pluralità di aliquote nominalmente molto progressive, oppure con un'unica aliquota per via delle detrazioni. Quindi non è vero che sarebbe incostituzionale. [Tra l'altro i poveri sarebbero esenti, NdM]

La seconda obiezione riguarda il gettito. Nel linguaggio comune, "tagliare le tasse" viene presentato come una perdita di gettito per l'erario. Ma qui bisogna intendersi: se per "tagliare le tasse" si intende la riduzione delle aliquote, questo non produce una diminuzione del gettito, anzi molto spesso produce un aumento. Quindi dire "come finanziamo il taglio delle tasse?" è una frase senza senso: non c'è bisogno di finanziarlo perché si finanzia da sé, se riduciamo le aliquote. Anzi, frutta qualcosa a chi ha tagliato le aliquote. Coloro che sostengono che la riduzione delle aliquote produrrebbe una drastica riduzione di gettito non hanno presente l'esperienza [vedi oltre, NdM]. Anche se adottiamo una prospettiva statica, cioè guardiamo all'immediato, e quindi ignoriamo le conseguenze che l'adozione della flat tax avrebbe sullo sviluppo e sulla riduzione dell'incentivo ad eludere e ad erodere, l'aliquota unica, grazie all'abolizione delle deduzioni e delle detrazioni, potrebbe benissimo produrre un aumento di gettito. Questo significa che, se anche non si riuscissero a chiudere tutte le scappatoie fiscali, un'aliquota unica inferiore al 20% frutterebbe lo stesso gettito della pletora di aliquote attuali.

Ora, dato che non tutte le scappatoie, deduzioni e detrazioni possono essere abolite, e che i redditi inferiori al minimo devono essere esenti da tasse, la mia valutazione -- che ovviamente va approfondita -- è che si potrebbe ricavare lo stesso gettito di oggi con un'aliquota inferiore al 25%, da portare poi gradualmente al di sotto del 20%. E' assolutamente fattibile. Non è utopico. Farebbe bene all'Italia. Ci libererebbe dal peso dello stato fiscale e rilancerebbe l'economia. Che cosa aspettiamo?

Qualcuno dice che questo sarebbe un regalo fatto ai ricchi. Cominciamo col dire che non ho nessuna simpatia per quelli che ritengono che l'obiettivo del sistema fiscale sia la soddisfazione dell'invidia. Gli invidiosi si tengano l'invidia. In uno stato liberale, un sistema fiscale ha un solo obiettivo: reperire le risorse per finanziare le attività indispensabili dello stato.


L'evidenza che diminuire le tasse ai ricchi aumenta il gettito

In secondo luogo, dire che si tratti di un regalo fatto ai ricchi è stupido e falso. Perché la riforma fiscale di Reagan (vi ricordo, dal 70% al 28%) fece raddoppiare il gettito dell'imposta sul reddito in 10 anni: da 517 a 1035 miliardi di dollari. Lo stesso era accaduto con la riforma di Kennedy all'inizio degli anni 60.

Ma qualcuno dirà: la riduzione delle aliquote non è un regalo fatto ai ricchi? La verità è esattamente l'opposto. L'elusione, infatti, è tanto più conveniente quanto più alte sono le aliquote sopportate dal contribuente. Il che significa che ad eludere sono più i ricchi che i poveri. La riduzione delle aliquote, quindi, ha effetto soprattutto sull'elusione dei contribuenti ricchi. I quali a seguito della riduzione delle aliquote eludono di meno e versano di più al fisco.

Con Kennedy, che ridusse l'aliquota massima sui redditi delle persone fisiche dal 90% al 70%, il carico fiscale sopportato dai contribuenti che avevano un reddito superiore ai 50.000$ passò dal 12% al 15% del totale. Cioè, prima i ricchi pagavano il 12%, dopo la riforma pagavano il 15% di tutto il gettito delle imposte dirette. Con le 2 riforme di Reagan (dal 70% al 28%), mentre nel 1980 il 5% più ricco dei contribuenti pagava il 35% del gettito totale, nel 1990 pagava il 49% del gettito totale. La riduzione delle aliquote di Reagan ha prodotto un aumento enorme del gettito che ha gravato soprattutto sui contribuenti più ricchi. La riduzione delle aliquote è il metodo più efficace per fare pagare le tasse ai ricchi.


Un'ultima considerazione alla quale tengo molto. Le alte tasse non danneggiano chi è già ricco. Chi è già ricco si può permettere quel lusso. Probabilmente non sa nemmeno quanto paga di tasse. E se scopre che paga tanto, non fa altro che chiamare il miglior tributarista e gli dice di trovargli un metodo per pagare di meno. Punto. No, le alte tasse non danneggiano chi è già ricco. Danneggiano chi potrebbe diventare ricco, e gli viene impedito di farlo dalle alte tasse. Sono la misura più antisociale, più reazionaria che si possa immaginare. E' come se tagliassero i gradini più bassi della scala sociale, impedendo a chi è a terra di cominciare a salire. Lasciandolo a terra. Questo ricordatelo: la superiorità morale non sta in chi dice "su le tasse", ma in chi dice "giù le tasse".

martedì 16 ottobre 2007

La fede come parassita del cervello


Questo è il primo episodio di una mini-serie dedicata al recente discorso di Richard Dawkins di accettazione del premio Deschner. Per il video originale cliccate qui.

La fede come parassita del cervello

[..]

Dr Sullivan mi ha mandato una bozza del suo discorso [..]. Nella bozza egli metteva in contrasto la visione del mondo scientifica, che soggiace alla progettazione e costruzione di un moderno aereo di linea, e la visione del mondo barbara, degna dell'età del bronzo, ed infantile, degli uomini che hanno dirottato quegli aerei di linea, quelle meraviglie della scienza, e le hanno fatte schiantare su alcuni degli edifici più alti del mondo, anch'essi a loro volta meraviglie prodotte dalla tecnologia scientifica.

Potremmo essere tentati dal pensare che quei 19 uomini, gli assassini dell'11 settembre, fossero dei barbari malvagi, mossi dal male. E' questa la posizione presa da Bush. (Anche oggi non riesco a chiamarlo "presidente Bush"). [il pubblico ride ed applaude.] Un'immaginazione fertile potrebbe credere di vedere il volto del diavolo nell'infernale cortina di fumo e polvere di quel giorno terribile --- la personificazione del male. Su internet si diffuse questo rumore.

Ma spero di non offendere nessuno quando dico che quei 19 uomini non erano malvagi. Nell'ottica della loro particolare religione, erano uomini giusti. Buoni. Sferrando dei colpi per Allah, essi guadagnavano per sé stessi una strada veloce verso il paradiso. Martirizzando se stessi per Allah.

Una percentuale spaventosamente alta di giovani musulmani che vivono in Gran Bretagna è d'accordo con loro. [...] Ci sono i sondaggi ben noti. Guardando questi sondaggi sembra molto probabile che decine di milioni, forse persino centinaia di milioni di persone in questo mondo credano questo: credono che dalla loro amata fede religiosa segua logicamente che assassinare 3000 impiegati d'ufficio di New York è stata la cosa giusta da fare. La cosa buona, la cosa doverosa da fare. Essi credono che i 19 uomini, che noi consideriamo come imperdonabili bruti e barbari, in questo preciso istante se ne stiano beati presso freschi ruscelli in paradiso, e siano serviti e riveriti da ragazze dagli occhi scuri.

Questi 19 uomini, durante la loro vita, non sono stati affatto privi di istruzione ed educazione. Alcuni di loro erano divenuti ingegneri. Conoscevano la matematica, la fisica. Il metodo scientifico. Gli uomini che hanno progettato la più recente missione suicida in Gran Bretagna erano medici. La loro testa era piena di nozioni dettagliate di anatomia, fisiologia, biochimica cellulare. Conoscevano i dettagli anatomici precisi di quelle braccia e gambe che speravano di amputare dai corpi altrui, e dai propri. Avevano dei buoni cervelli, capaci di superare difficili esami di medicina.

Ma quei buoni cervelli erano stati dirottati dalla fede. Proprio come un aereo di linea è dirottato dei terroristi. [il pubblico applaude.]

Non erano stupidi. Erano persone piacevoli per chi li conosceva. Dopo i bombardamenti di luglio 2005, i giornali britannici si riempirono di articoli che riportavano lo stupore dei loro conoscenti e vicini. Questi erano uomini per bene. Amichevoli. Iscritti ai club. Amavano giocare a cricket. Non erano reietti sociali. Proprio il tipo di persone con cui è piacevole passare la serata. Ma per quanto persone per bene, un terribile parassita si era impadronito dei loro cervelli. Un virus chiamato fede religiosa.

Daniel Dennett, mio collega, [...] ha fatto un'analogia che non mi faccio scrupoli a rubare, anche perché lui l'ha rubata a me in primo luogo... [il pubblico ride.] E' l'analogia con il cosiddetto "verme del cervello", chiamato "lancet fluke", che abita nelle formiche. Quando questo verme/virus entra nel cervello di una formica, fa delle piccolissime lesioni. Come sapete, se fate una lesione nel cervello di un animale, potete modificare il suo comportamento. E questo parassita fa una lesione nel cervello della formica che altera il comportamento della formica in questo modo: la formica, invece di starsene nascosta in basso nell'erba a svolgere la sua mansione normale, comincia a salire verso la cima di una montagnetta di erba, e così ha un'alta probabilità di essere mangiata da una pecora. E questo è esattamente ciò che il verme "vuole", perché la pecora è l'ambiente finale in cui il verme ha bisogno di arrivare per completare il suo ciclo di vita.

La letteratura della biologia è piena di questi "affascinanti" esempi di parassiti che dirottano l'organismo ospitante. Manipolano l'organismo ospitante per i propri fini. Il cervello umano, sfortunatamente, è enormemente vulnerabile ad essere dirottato in questo modo. Le religioni sono bravissime nell'arte di dirottare. Sinceramente non so se la religioni siano così perché sono state progettate consapevolmente per questo scopo, da preti ingegnosi, o se abbiano evoluto questa capacità per selezione naturale. [Ricordate che anche le idee si evolvono per selezione naturale. Il primo a farlo notare fu proprio Dawkins ne "Il gene egoista". NdM.] E' una domanda interessante che lascerò per dopo. Resta il fatto che dei cervelli, che sono perfettamente capaci di vivere la vita nella tecnologia del ventunesimo secolo, cervelli che possono fare matematica, anatomia, ingegneria e fisiologia, cervelli che possono emettere un comportamento gentile e amichevole quando si trovano in un club giovanile e giocano a cricket, possono essere dirottati da un virus mentale degno dell'età del bronzo, che li spinge a commettere gli atti più orribili, resi ancora più orribili dalla tecnologia moderna.

C'è qualcosa di bizzarro e di intrinsecamente pericoloso nella fede. Significa credere qualcosa senza evidenza. E non venitemi a dire che la vostra fede si basa su evidenza. Perché se così fosse non avreste bisogno di chiamarla fede. Basterebbe "evidenza". [il pubblico applaude.]

Naturalmente, io credo in molte cose che qualcuno chiamerebbe "atti di fede", come ad esempio l'amore di mia moglie. Ma in realtà anche questo si basa su evidenza. Evidenza sottile. Indizi. Piccoli sguardi. Il tono di voce. Vedi l'evidenza ogni giorno della tua vita, e lentamente ti convinci. Insomma, questa non è fede. Se hai evidenza, non ti serve la fede.

Quando nel mondo scientifico due persone non sono d'accordo su qualcosa -- e succede spesso -- questo dipende da una diversa interpretazione dell'evidenza. E' perché non c'è ancora abbastanza evidenza. Non udite mai uno scienziato dire una cosa del genere: "Io credo in X perché faccio parte dei sostenitori del big bang, e tutti i sostenitori del big bang credono in X". Nel mio campo, la biologia, non sentite mai nessuno dire "Io credo Y perché sono un selezionista di gruppo, e noi selezionisti di gruppo crediamo Y". Lo scienziato dice "Io credo così e così, perché è questo che l'evidenza indica." "Sono un sostenitore del big bang perché l'evidenza supporta la teoria del big bang." "Sono contrario alla selezione di gruppo perché l'evidenza va contro la selezione di gruppo.". A proposito, non pensate neppure per un attimo che gli scienziati siano completamente certi di sapere tutto. Scienza non vuol dire scientismo. C'è molto disaccordo tra gli scienziati, e c'è molto che gli scienziati ammettono di non sapere. E ci sono molte cose che la scienza non potrà mai sapere.

Ma non lasciate mai che qualcuno dica che, visto che la scienza non può rispondere a qualche domanda profonda e misteriosa, "allora" la religione può. [scrosci di applausi.]

(continua)