giovedì 26 luglio 2007

Decomporre l'arcobaleno


Questo è il secondo episodio di una serie dedicata alla superstizione e al libro di Richard Dawkins "Unweaving the Rainbow: a Darwinian View of Life" (L'arcobaleno della vita). Clicca qui per il primo episodio.


Capitolo 6 (seguito)


Proviamo a pensare a una serie di storie che gli altri potrebbero raccontarci e riflettiamo sulla cautela con cui dovremmo o non dovremmo accoglierle. A un livello più quotidiano si trovano quelle che potrebbero essere vere o false, ma delle quali non abbiamo particolare motivo di dubitare. In Uomini alle armi (1952), di Evelyn Waugh, il personaggio comico di Apthorpe nomina più di una volta al narratore, Guy Crouchback, le sue due zie, residenti una a Peterborough e l'altra a Tunbridge Wells. Sul letto di morte, Apthorpe alla fine confessa di avere in realtà solo una zia. «Quale delle due avete inventato?» gli chiede Crouchback. «Quella di Peterborough, naturalmente» risponde Apthorpe. «lo vi avevo creduto in pieno» ammette Guy. «Sì, era un bello scherzo, vero?» dice l'altro.

Ma la fandonia di Apthorpe non è solo un bello scherzo; è un vero e proprio tiro mancino che Evelyn Waugh gioca a Crouchback. Certo ci sono molte signore anziane che risiedono a Peterborough, e se un tale ci dicesse di avere una zia che vive là non avremmo motivi particolari per non credergli; ma se il fatto avesse implicazioni importanti sarebbe ovviamente opportuno controllare se è vero. Supponiamo invece adesso che quel tale dichiari che, attraverso la meditazione e la forza di volontà, sua zia è in grado di levitare: siede a gambe incrociate, pensa a cose belle e intonando un mantra si solleva fin quasi al soffitto. Perché questa storia sarebbe più incredibile se, in entrambi i casi, chi racconta si dichiara testimone oculare?

La risposta è ovvia: non si può spiegare in termini scientifici la levitazione per forza di volontà. Non si può spiegare, s'intende, in base alle nozioni della scienza contemporanea. Torniamo così alla terza legge di Clarke e a un concetto importante: la scienza di qualsivoglia epoca non possiede tutte le risposte e viene superata dalla scienza dell'epoca successiva. Forse, in futuro, i fisici comprenderanno più a fondo la gravità e costruiranno macchine antigravitazionali, e forse per i nostri discendenti le zie volanti diventeranno pane quotidiano come lo sono oggi gli aerei a reazione per noi. Dobbiamo dunque dedurre che la terza legge di Clarke ci autorizza a credere a tutte le storie di apparenti miracoli di cui si racconta in giro? Se qualcuno affermasse d'aver visto sua zia levitare in posizione yoga o un turco sfrecciare sui minareti a cavallo di un tappeto volante, dovremmo credergli perché i nostri antenati che dubitarono del futuro della radio risultarono in errore? No, è evidente che non vi sono motivi sufficienti per credere alla levitazione o ai tappeti volanti. Come mai?

La terza legge di Clarke non è reversibile. Mentre è vero che «qualsiasi tecnica abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia», non è vero che «qualsiasi magia vista o sognata è indistinguibile da un progresso scientifico futuro». Sì, alcuni autorevoli scienziati proclamarono l'impossibilità di certi fenomeni e furono sconfessati; ma ben più numerose sono state le persone che hanno dichiarato d'aver visto inauditi prodigi mai confermati da prove. Certe cose che oggi ci sembrano impossibili si avvereranno in futuro, ma molte più cose che ci sembrano impossibili non si avvereranno mai. Il diffficile è scegliere le poche profezie azzeccate in mezzo alla paccottiglia, alle affermazioni che resteranno sempre nel regno della magia e dell'immaginazione.

Quando sentiamo raccontare una storia incredibile che sa di miracolo, converrà anzitutto domandarsi se l'interlocutore non abbia motivo di mentire. Ma possiamo valutare le sue credenziali anche in altri modi. Ricordo una piacevole cena nel corso della quale un commensale, un filosofo, raccontò di avere visto un giorno, in chiesa, un prete che si era sollevato di una ventina di centimetri da terra. Come se non bastasse, proseguì narrando altri due episodi a cui, a suo dire, aveva assistito. Spiegò di avere fatto molti mestieri, tra cui il direttore di riformatorio, e di avere scoperto che tutti i giovani delinquenti ospitati all'epoca nell'istituto si erano fatti tatuare sul pene la frase «Mamma, ti voglio bene». Di per sé la storia era improbabile, ma non impossibile e, diversamente da quella del prete che levitava, non sfidava in alcun modo le leggi della fisica; tuttavia confermava la mia prima impressione sulla credibilità del mio commensale. Un'altra volta il nostro filosofo, uomo a quanto pare assai vissuto, aveva visto una cornacchia accendere un fiammifero e alzare un'ala per impedire al vento di spegnere la fiamma. Non ricordo se l'uccello avesse tirato una boccata di sigaretta, ma certo le tre storie, prese insieme, lasciavano pensare che il mio compagno di tavolo fosse un tipo spassoso, ma inattendibile. L'ipotesi che fosse un bugiardo (o un pazzo o un allucinato o semplicemente un buontempone che voleva sondare la credulità dei professori di Oxford) era assai più probabile dell'ipotesi che tutti e tre gli improbabili aneddoti fossero veri.

In quanto filosofo, doveva conoscere il criterio logico ideato da David Hume. Come scrisse il grande filosofo scozzese in maniera a mio avviso inoppugnabile:

Nessuna testimonianza basta per stabilire un miracolo, a meno che la testimonianza non sia di tal fatta che la sua falsità risulterebbe più miracolosa dell'avvenimento che essa si sforza di stabilire.

I miracoli, 1748

Seguirò il principio di Hume nella mia analisi di un miracolo che passa per quello più «convalidato» di tutti i tempi, visto che, a quanto si racconta, vi assistettero settantamila persone, per giunta in un'epoca relativamente recente: l'apparizione della Madonna di Fatima. Cito dalla documentazione che ho trovato in un sito web cattolico, dove si specifica che, essendo stata ufficialmente riconosciuta dal Vaticano, quella di Fatima è la più accreditata delle molte presunte apparizioni mariane.

Il 13 ottobre 1917, più di settantamila persone si raccolsero nella Cova de Iria, presso Fatima, un villaggio del Portogallo. Si trovavano lì per assistere al miracolo preannunciato dalla Santa Vergine ai tre pastorelli che avevano avuto le visioni mistiche: Lucia dos Santos e i suoi due cugini, Jacinta e Francisco Marto ... Poco dopo mezzogiorno la Madonna apparve ai tre fanciulli e, subito prima di dileguarsi, indicò il sole. Turbata, Lucia ripeté il gesto e tutti guardarono in su ... Allora un grido di terrore si levò dalla folla, perché il sole sembrò staccarsi dal cielo per precipitare sugli astanti. Proprio quando sembrava che la palla di fuoco stesse per abbattersi sulla gente, polverizzandola, il miracolo cessò e il sole tornò a splendere più placido che mai in cielo.

Se il sole roteante fosse stato visto solo da Lucia, la bambina che diede inizio al culto di Fatima, pochi avrebbero creduto al miracolo, perché si sarebbe potuto facilmente supporre che la pastorella fosse stata vittima di un'allucinazione o avesse raccontato una bugia. Sono i settantamila testimoni a colpirci. Potevano, settantamila persone, avere simultaneamente la stessa allucinazione o dire concordemente la stessa bugia? O, se non vi furono mai settantamila spettatori, poteva chi descrisse l'avvenimento inventarsi l'esistenza di così tanti testimoni senza essere sbugiardato?

Proviamo ad applicare il criterio di Hume. Da un lato c'è l'ipotesi che vi sia stata un'allucinazione collettiva, un gioco di luce che tutti hanno creduto di vedere o una bugia collettiva raccontata da settantamila persone. Bisogna ammettere che è un'ipotesi improbabile; ma è meno improbabile di quella alternativa, ossia che il sole si sia mosso davvero. Dopotutto, il sole che splendeva su Fatima non era un sole privato: era lo stesso che scaldava gli altri milioni di persone dell'emisfero illuminato del pianeta. Se la nostra stella si fosse realmente mossa, ma fosse stata vista muoversi solo dalla popolazione di Fatima, si sarebbe dovuto compiere un miracolo ancor più grande: milioni e milioni di testimoni che non si trovavano a Fatima avrebbero dovuto avere l'illusione di non vederla muoversi. Ma, soprattutto, credere al disco roteante di Fatima significa ignorare che, se il sole si fosse realmente lanciato verso la terra alla velocità denunciata dai testimoni, il sistema solare si sarebbe disintegrato. Non possiamo che attenerci al criterio di Hume, ovvero scegliere la meno miracolistica delle alternative disponibili e concludere che, contrariamente a quanto afferma ufficialmente il Vaticano, il miracolo di Fatima non si verificò affatto. Inoltre, tocca davvero a noi spiegare in che modo quelle settantamila persone siano state indotte a vedere ciò che non c'era?

Se ci spostiamo verso il limite estremo dell'improbabilità e dei presunti miracoli, troviamo speculazioni o asserzioni che possiamo con assoluta sicurezza definire impossibili? I fisici convengono che se un inventore chiedesse di brevettare la macchina del moto perpetuo, gli si potrebbe rispondere di no senza nemmeno guardare il progetto. La macchina del moto perpetuo, infatti, violerebbe le leggi della termodinamica. Come scrisse Sir Arthur Eddington:

Se qualcuno vi fa notare che la vostra teoria preferita dell'universo non va d'accordo con le equazioni di Maxwell, tanto peggio per le equazioni di Maxwell! Se la si trova contraddetta dall'osservazione ... ebbene, qualche volta gli sperimentatori fanno certe confusioni! Ma se si scopre che la vostra teoria è contraria al secondo principio della termodinamica, non posso darvi speranza alcuna: alla vostra teoria non resta altro che sprofondare nella massima umiliazione!

La natura del mondo fisico, 1928

Con abilità narrativa, Eddington all'inizio fa notevoli concessioni perché in seguito risalti maggiormente. l'enormità di un'eventuale violazione della seconda legge della termodinamica. Ma se siete convinti che il celebre scienziato sopravvalutasse tale legge fisica e che in futuro una tecnologia avveniristica oggi inimmaginabile potrebbe ignorarla, siete liberi di pensarla come vi pare. Non insisterò sul concetto: mi limiterò a dire che preferisco essere prudente e, con Hume, basare i miei argomenti sulle probabilità relative. Frodi, illusioni, imbrogli, allucinazioni, abbagli o bugie spudorate rappresentano un'alternativa così probabile, che dubiterò sempre delle dichiarazioni di chi afferma d'aver visto o di aver sentito parlare di clamorose violazioni delle leggi ritenute inviolabili dalla scienza attuale. Se la scienza attuale cambierà, come farà di certo, non cambierà atttraverso gli aneddoti occasionali o le esibizioni televisive, ma attraverso la ricerca rigorosa basata sull'accurata verifica delle ipotesi.

Tornando alla nostra gamma di improbabilità, le fate dovrebbero trovarsi tra la zia di Apthorpe e la macchina del moto perpetuo. Se domani si scoprissero creaturine umane alate come farfalle e vestite con minuscoli abiti alla moda, i principi fondamentali della fisica non sarebbero violati: l'evento non apparirebbe rivoluzionario come la macchina del moto perpetuo. Tuttavia i biologi non saprebbero come inquadrare le fate nei loro schemi di classificazione. Che origine avrebbero sotto il profilo evolutivo? Né i reperti fossili né la zoologia contemporanea ci parlano di primati con le ali e sarebbe davvero strano e singolare che tali esseri fossero divenuti all'improvviso così simili a noi da scegliere abiti identici ai nostri (come avevano fatto, negli anni Venti, le fate à la mode che apparvero nei famosi falsi fotografici da cui rimase assai colpito il notoriamente credulo Sir Arthur Conan Doyle).

Esseri leggendari come il mostro di Loch Ness, lo yeti (alias abominevole uomo delle nevi dell'Himalaia) e il dinosauro del Congo sono, nella nostra scala, un poco più probabili delle fate di Conan Doyle. Potrebbe benissimo essere sopravvissuta una popolazione di plesiosauri nel Loch Ness. Non so dirvi quanto io e, con me, tutti gli zoologi saremmo contenti se così fosse, o se venisse trovato nel Conngo un vero dinosauro. Una simile scoperta non violerebbe nessuna legge biologica e meno che mai le leggi fisiche. L'unico motivo per cui l'ipotesi sembra improbabile è che l'ultimo dinosauro conosciuto visse 65 milioni di anni fa, e 65 milioni di anni sono molti, troppi perché una popolazione che si riproduce resti nascosta senza lasciare tracce fossili. Quanto allo yeti, se solo potessi credere che fosse sopravvissuta una popolazione di Homo erectus, o Gigantopithecus, ne sarei felicissimo. Vorrei tanto poter ritenere quest'ipotesi più probabile di alternative humiane come le allucinazioni, la fantasia di occasionali viaggiatori o la «lettura» errata (ancorché in buonafede) di impronte d'animale sulla neve rese più grandi dal sole.

Il 30 agosto 1938, quando Orson Welles lesse alla radio un brano della Guerra dei mondi di H.G. Wells, gli ascoltatori furono, com'è noto, presi dal panico (pare addirittura che qualcuno si sia suicidato); la scena iniziale, narrata in forma di notiziario, fu infatti scambiata per un radiogiornale vero che annunciava un'invasione marziana. Si suole spesso citare l'episodio per illustrare l'estrema ingenuità del popolo americano, ma ho sempre pensato che fosse piuttosto ingiusto additare la reazione del pubblico degli Stati Uniti a esempio di credulità, in quanto un'invasione dallo spazio non è impossibile e, se si verificasse, forse ci verrebbe annunciata proprio da un notiziario lampo alla radio.

Le vicende di dischi volanti piacciono sempre molto alla gente, ma in genere sono disdegnate dalla comunità scientifica. Come mai? Non perché una visita da altri mondi sia impossibile o anche solo fortemente improbabile, ma perché, per l'ennesima volta, sono più probabili spiegazioni alternative, come una frode o un'illusione otti­ca. Di fatto, équipe di dilettanti scrupolosi e di scienziati seri hanno analizzato con estrema cura e minuzia molte storie di Ufo, e ogni volta, immancabilmente, hanno scoperto che di extraterrestre non c'era proprio niente. Spesso si tratta di vere e proprie truffe (compli­ci alcuni editori che pagano profumatamente queste storie e non chiedono documentazione, contando sull'indotto di T-shirt e gadget vari). Altre volte i «dischi» si rivelano aerei, dirigibili o mongolfiere visti, o illuminati, da una particolare angolazione. Altre ancora sono miraggi o illusioni ottiche. Infine, in certi casi si tratta di avvista­menti di apparecchi militari segreti.

Un giorno, forse, saremo visitati da astronavi extraterrestri. Ma le probabilità che uno specifico rapporto sui dischi volanti sia autenti­co sono basse in confronto alle probabilità di un'alternativa humia­na consistente in frodi o illusioni ottiche. Tuttavia il particolare che più di ogni altro toglie credibilità alla maggior parte delle storie di Ufo è la somiglianza quasi comica dei presunti alieni con gli esseri, umani o con gli extraterrestri inventati dalla nostra fantasia al cine­ma e alla televisione. E c'è un particolare ancora più grottesco: molti alieni appaiono abbastanza affini ai maschi umani da voler copulare con le femmine terrestri per produrre prole fertile. Come hanno os­servato Cari Sagan e altri, gli umanoidi ansiosi di rapire donne sem­brano l'equivalente moderno dei diavoli e delle streghe del Seicento.

Forti del prestigio mediatico offerto dalla televisione e dalla stam­pa, l'astrologia, la parapsicologia e l'ufologia hanno il vantaggio di rivolgersi in maniera diretta alla coscienza popolare. Se, come pen­so, l'interesse che la gente prova per questi argomenti nasce dalla naturale e lodevole sete di meraviglia della nostra specie, benché il discorso possa apparire paradossale dirò che abbiamo motivo di sentirci incoraggiati. Sì, perché, se è vero che la sete di meraviglia può essere placata molto più dalla scienza che dalla magia, combat­tere la superstizione favorendo e incrementando l'istruzione do­vrebbe portare ai risultati sperati. Ma ho idea che vi sia in gioco un altro fattore a complicare le cose, una forza psicologica potente che analizzerò nelle prossime pagine, perché comprenderla ci aiuterà forse a limitarne i danni. Mi riferisco, in sostanza, alla normale e, sotto molti profili, auspicabile credulità infantile, la quale, se non si è vigili, può estendersi all'età adulta e sortire effetti spiacevoli. Par­tirò, nella disamina, da un aneddoto personale.

Il primo aprile di un certo anno, quando mia sorella e io eravamo bambini, i nostri genitori e i nostri zii ci fecero uno scherzo molto di­vertente: annunciarono che avevano ritrovato in soffitta l'aeroplanino di quando erano piccoli e che ci avrebbero preso a bordo per farci fare un giro. All'epoca volare non era pratica comune come oggi, e noi fummo contentissimi. L'unica condizione impostaci era che ci lasciassimo bendare. Gli adulti dunque ci condussero per mano nel prato e noi, ridendo e inciampando, a un certo punto ci facemmo le­gare ai sedili. Sentimmo il rumore del motore che si avviava, poi un sobbalzo; quindi salimmo su su in aria, fluttuando, ondeggiando, oscillando in una vertiginosa ascensione. Ogni tanto evidentemente sfioravamo le alte cime degli alberi, perché i rami ci toccavano il viso e un piacevole vento ci alitava in faccia. Alla fine «atterrammo»: l'e­mozionante volo terminò sul prato, la benda ci fu tolta e, tra le risa­te, papà e mamma ci rivelarono la verità. Non c'era nessun aeroplano. Non ci eravamo spostati dal punto di partenza. Eravamo rimasti seduti su una sedia del giardino che il babbo e lo zio avevano sollevato, ruotato, trasportato in giro per simulare il movimento dell'ae­reo. Il «motore» era un aspirapolvere acceso e il vento era prodotto da un ventaglio, oggetti che, assieme ai rami d'albero da noi «sfiora­ti», erano stati maneggiati dalla mamma e dalla zia, che si trovavano in piedi accanto alla sedia. Ma, finché era durata, l'avventura era stata piacevole.

Eravamo bambini creduli e fiduciosi e avevamo sognato il volo promesso per giorni, prima che si realizzasse davvero. Neanche per un istante ci era venuto in mente di chiederci perché dovessimo essere bendati. Non sarebbe stato naturale domandarsi che senso avesse fare una gita di piacere senza guardarsi intorno? Ma i nostri genitori ci avevano detto, senza specificarne il motivo, che dovevano bendar­ci e noi avevamo accettato il diktat senza fiatare. Forse ricorsero alla vecchia scusa che così non si correva il rischio di «rovinare la sorpresa»; in ogni caso, non ci chiedemmo neppure perché non ci avessero mai rivelato che erano provetti piloti o che lo era almeno uno dei due, e credo che non abbiamo nemmeno domandato chi pilotasse l'aereo. Insomma non avevamo un animo scettico; né temevamo di precipita­re, tant'era la fiducia che avevamo nei nostri genitori. E quando ci fu tolta la benda dagli occhi e venimmo a sapere che era stato uno scher­zo, non per questo smettemmo di credere a Babbo Natale, alla fatina dei denti, al paradiso degli animali e alle altre storie raccontateci dai nostri stessi genitori. A proposito, mia madre non ricorda affatto l'e­pisodio, ma si ricorda di quando suo padre fece a lei e alla sua sorelli­na lo stesso identico scherzo, in uno scenario ancora più improbabile: l'aereo aveva «decollato» dentro casa e perciò le due bambine aveva­no dovuto chinare la testa «quando erano volate fuori della finestra». Anche loro, manco a dirsi, avevano abboccato.

I bambini sono creduli per natura. Come potrebbero non esserlo? Vengono al mondo ignari di tutto, circondati da adulti che, in con­ fronto a loro, sono pozzi di scienza. Ed è sicuramente vero quel che dicono i grandi: i serpenti mordono, il fuoco brucia, se ci si espone senza crema al sole di mezzogiorno ci si scotta, si diventa rossi e, co­me sappiamo adesso, si rischia di ammalarsi di melanoma. Un mo­do più scientifico di apprendere nozioni utili -- procedere per tentati­vi e errori -- spesso non è l'ideale, perché gli sbagli si pagano troppo cari. Se nostra madre ci dice di non remare mai sul lago perché ci so­no i coccodrilli, non è il caso di fare gli scettici, gli scientifici e gli «adulti» replicando: «Grazie, mamma, ma preferisco verificare spe­rimentalmente se ci sono davvero». La verifica potrebbe essere l'ulti­ma. È facile capire perché la selezione naturale, ossia la sopravvi­venza del più adatto, penalizzi l'impostazione sperimentale e scettica nei bambini e favorisca invece la credulità e l'ingenuità.

Tutto ciò ha però un inevitabile quanto spiacevole effetto collate­rale. Se i genitori ci danno una falsa informazione, dobbiamo crede­re anche a quella: non possiamo fame a meno. I bambini non hanno gli strumenti per distinguere fra l'avvertimento che li protegge da pericoli autentici e la minaccia di falsi pericoli quali cecità o inferno annunciati come conseguenza del «peccato». Se sapessero discerne­re, non avrebbero bisogno di alcun monito. Come mezzo di soprav­vivenza, la credulità arriva «impacchettata» con gli svantaggi: cre­diamo a tutto, vero o falso. I genitori e in generale gli adulti sono tali pozzi di scienza: è naturale avere fiducia in loro. Perciò, quando ci dicono che Babbo Natale viene giù dal camino e che la fede «muove le montagne», abbocchiamo.

I bambini devono credere per potere svolgere il loro ruolo di «bruchi» nella vita. Le farfalle hanno ali perché volando individua­no i membri del sesso opposto e diffondono la prole ampliando la gamma dei fiori cui attingere nutrimento. Hanno un modesto appe­tito che soddisfano succhiando ogni tanto il nettare e hanno bisogno di poche proteine in confronto ai bruchi che sono nello stadio della crescita. In tutte le specie gli animali giovani si preparano a diventa re adulti di successo, cioè in grado di riprodursi. I bruchi devono nutrirsi il più in fretta possibile per poter diventare crisalidi e quindi insetti adulti capaci di volare, accoppiarsi e propagarsi: per questo non hanno ali, ma potenti e avide mascelle.

I bambini umani devono essere creduli per motivi analoghi: sono infatti «bruchi del sapere», e hanno il compito di diventare adulti e riprodursi in una sofisticata società basata sull'informazione. La fonte in assoluto maggiore di cibo informativo sono gli adulti, in particolar modo i genitori. Come i bruchi hanno un potente appara­to boccale con cui succhiano la polpa del cavolo cappuccio, così i bambini hanno occhi, orecchi e cervelli aperti, fiduciosi e protesi verso l'assorbimento del linguaggio e di ogni conoscenza. Essi suc­chiano il sapere adulto. I portali del cranio infantile vengono invasi da valanghe di dati, gigabyte di sapienza provenienti perlopiù dalla cultura accumulata dai genitori e da generazioni di antenati. Ma la similitudine finisce qui: i bambini si trasformano in adulti molto gradualmente, mentre le larve dei lepidotteri subiscono una meta­morfosi improvvisa.

Ricordo che una volta, per Natale, cercai amabilmente di divertire una bambina di sei anni calcolando con lei quanto tempo avrebbe im­piegato Babbo Natale a scendere da tutti i camini del mondo. Ponia­mo che il camino medio sia lungo sei metri e che ci siano cento milio­ni di case abitate da bambini, dissi: quanto in fretta sarebbe dovuto scendere da ogni camino Babbo Natale per finire di deporre i regali entro l'alba del 25 dicembre? Conclusi che il buon vecchio non sareb­be potuto entrare in punta di piedi, silenziosamente, nella camera da letto di ciascun bambino, perché avrebbe dovuto superare la barriera del suono. La bambina capì il concetto e si rese conto dell'inghippo, ma non se ne preoccupò minimamente: lasciò cadere l'argomento senza cercare di risolvere il problema. L'eventualità - molto concreta - che i suoi genitori le avessero detto cose false non la sfiorò neppure. Benché nella sua testa non usasse ovviamente questi termini; pensa­va chiaramente che, se rendevano impossibile l'impresa di Babbo Na­ tale, le leggi della fisica potevano andare a farsi benedire. I suoi genitori le avevano detto che egli scendeva da tutti i camini nella notte tra il 24 e il 25 dicembre, e così doveva essere.

Dove voglio arrivare? Voglio arrivare a dire che la fiduciosa credulità potrà essere sana e normale in un bambino, ma diventa mal­ sana e riprovevole in un adulto. Crescere, nel senso più pieno della parola, dovrebbe indurre anche a coltivare un sano senso critico. L'atteggiamento di chi è pronto a credere a tutto si può definire in­fantile perché è comune, e giustificabile, nei bambini; quando persi­ste nell'età adulta, ho idea che derivi dal rimpianto struggente delle sicurezze e dei vantaggi perduti dell'infanzia. Il concetto fu efficace­ mente illustrato nel 1986 da Isaac Asimov, grande divulgatore scien­tifico e grande scrittore di fantascienza: «Se si analizza qualsiasi pseudoscienza, vi si troverà una coperta calda, un pollice da suc­chiare, una gonna cui aggrapparsi». Per molti l'infanzia è una per­duta Arcadia, un paradiso di certezze e sicurezze in cui si poteva fantasticare di volare nel Paese dei Sogni. Ah, com'era bello ascolta­ re la mamma raccontarci le favole a letto e cadere con il nostro orsac­chiotto nelle braccia di Morfeo! Con il senno del poi, possiamo forse dire che gli anni dell'innocenza infantile passano troppo in fretta. Sono grato ai miei genitori per avermi narrato della fata dei denti e di Babbo Natale, di Mago Merlino e dei suoi incantesimi, del bambin Gesù e dei Re Magi. Tutte queste storie arricchiscono l'infanzia e, con molte altre, contribuiscono a renderla un reame incantato del­ la memoria.

Il mondo adulto potrà apparire vuoto e freddo al confronto, privo com'è di Babbo Natale, del Paese dei Balocchi, del paradiso degli animali dove il cagnolino continua a vivere felice e della protezione di angeli custodi. Ma nell'età adulta non ci sono nemmeno i diavoli, il fuoco dell'inferno, le streghe cattive, gli spettri, le case infestate, le possessioni demoniache, gli orchi o gli uomini neri. Certo, si scopre che l'orsacchiotto e la bambola sono inanimati, ma in compenso si possono abbracciare compagni caldi, vivi, parlanti e pensanti, e mol­ti di noi trovano questo tipo d'amore più gratificante dell'affetto in­fantile per i pur morbidi e simpatici animaletti di peluche.

Non maturare del tutto significa conservare la qualità «larvale» in­fantile (che è utile al bambino) nell'età adulta (quando diventa dan­nosa). Nell'infanzia la credulità è preziosa perché ci permette di immagazzinare con straordinaria rapidità una quantità di informazioni raccolte dai genitori e dagli antenati nel loro complesso. Ma se a tem­po debito non usciamo da questo stadio naif, la nostra natura «larva­le» ci renderà facili prede di astrologi, medium, guru, predicatori e ciarlatani. Il grande talento del bambino, questo straordinario bruco, consiste nell'assorbire informazioni e idee, non nel criticarle. A dispetto dell'ingenuità infantile, in seguito le facoltà critiche aumenta­no. La natura spugnosa, assorbente del cervello infantile è l'improba­bile vivaio, l'incerto terreno su cui in seguito può crescere, come un granello di senape in lotta per l'esistenza, l'atteggiamento critico. Dobbiamo sostituire la credulità innata dell'infanzia con la selettività costruttiva della scienza adulta.

Ma ho idea che vi sia anche un altro problema. Descrivere il bam­bino come un «bruco del sapere» è semplicistico. Il software della credulità infantile ha aspetti che possono apparire paradossali se non li si analizza in profondità. Torniamo dunque all'infanzia e al suo bisogno di assorbire il più in fretta possibile informazioni dalla generazione precedente. Può accadere che due adulti, per esempio nostro padre e nostra madre, ci diano consigli contraddittori: per esempio la mamma ci dice che i serpenti sono tutti velenosi e letali e che dobbiamo evi tarli con cura, e il giorno dopo il babbo ci dice che i serpenti sono tutti velenosi e letali, tranne quelli verdi, che possono quindi essere allevati come animali domestici. Entrambi i consigli sarebbero in teoria giusti. Quello più generico della mamma conse­guirebbe l'obiettivo di difenderci dai serpenti, pur non informando­ci dell'innocuità degli esemplari verdi; quello più dettagliato del babbo ci proteggerebbe altrettanto e sarebbe in certo modo più esat­to, ma potrebbe risultare fatale se venisse seguito, senza debite cor­rezioni, in un paese lontano. In ogni caso la discrepanza fra i due consigli rischierebbe di disorientarci parecchio. Spesso i genitori fan­no di tutto per non contraddirsi a vicenda, e probabilmente è giusto che si comportino così; ma nel «programmare» la credulità, la selezione naturale dovrebbe tener conto dei messaggi contrastanti e per esempio includere una semplice «regola della precedenza», come: «Credi a qualunque storia tu abbia sentito per prima» o: «Credi alla mamma anziché al babbo, e al babbo anziché agli altri adulti della popolazione» .

A volte, con i loro consigli, i genitori cercano di mettere in guardia i bambini da altri membri della popolazione adulta. L'esempio clas­sico è: «Se un adulto vi invita a seguirlo dicendo di essere un amico di mamma e papà, non credetegli nemmeno se sembra simpatico e nemmeno (anzi meno che mai) se vi offre delle caramelle. Seguite solo un adulto che sia voi sia noi conosciamo, o che porta la divisa da poliziotto». (Non molto tempo fa apparve sui quotidiani inglesi una notizia divertente. Un giorno, passando in macchina per una strada, la regina madre, allora novantasettenne, aveva notato una bambina che piangeva perché si era persa e aveva detto allo chaffeur di fermarsi; poi, gentilmente, era scesa dall'auto per consolarla e si era offerta di accompagnarla a casa. «Non posso» aveva risposto tra i singhiozzi la piccola. «Non mi è permesso parlare con estra­nei.») I bambini si dimostrano tutt'altro che creduloni quando insi­stono a credere a un'affermazione fatta da un adulto in passato rifiu­tando un'affermazione successiva pur plausibile e convincente.

Forse, quindi, è opportuno correggere la definizione corrente di bambino sempre pronto a credere. I veri creduloni prendono per buono l'ultimo discorso che hanno sentito, anche se contraddice af­fermazioni precedenti. La qualità infantile che sto cercando di defi­nire non è tanto la pura credulità, quanto una complessa convergen­za di credulità e incredulità: il tenace persistere in una convinzione dopo che questa è stata acquisita e si è consolidata. Insomma è un atteggiamento che parte dalla credulità estrema, ma è poi seguito da un'altrettanto estrema irremovibilità. Si tratta di una combinazione chiaramente devastante. I gesuiti di una volta sapevano il fatto loro quando dicevano: «Datemi un bambino nei primi sette anni di vita, e vi darò l'uomo».

(fine capitolo 6)
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